sabato 7 dicembre 2013

Progettare per insegnare a progettare


L’università riformata è giunta ora a compimento, e mentre ancora si discute di quale sia il bilancio della penultima riforma, quella Berlinguer del 1999, già iniziano le scommesse sulle conseguenze dell’attuale riforma Gelmini: cosa cambia e per chi.
La riforma Berlinguer era nata per rispondere meglio alle nuove esigenze del mercato che richiedevano titoli intermedi oltre la tradizionale, laurea quinquennale; l’invenzione del 3+2 prevedeva una laurea triennale, completa ma generalista, e un biennio di specializzazione a orientamento professionalizzante.
Ciò sembrava incontrare le richieste del mondo del lavoro in un orizzonte di  sviluppo dell’economia; ma né il mercato né l’economia si sono evolute in questo senso e  nemmeno l’università ha fornito quelle lauree professionalizzanti che si prevedevano.
 Nel 2010 la riforma Gelmini ha invece agito sulla struttura dell’università con lo scopo di una maggiore efficienza, risparmio dei costi e razionalizzazione dell’offerta formativa.
Mentre la vecchia organizzazione in Facoltà e Senato accademico è stata ristrutturata in modo dirigistico, quasi nessuna modifica è stata proposta sul piano dei contenuti della formazione se non una scarsa premialità (10% del FFO) per la ricerca, da assegnarsi all’Ateneo e non al singolo ricercatore.
Unificata positivamente didattica e ricerca dentro i nuovi Dipartimenti, è stato assegnato al nuovo organo  interno Anvur il controllo di qualità per la sola ricerca mentre nessun tentativo è stato fatto per la qualità della didattica.
Appare evidente, dall’enfasi messa sulla ricerca, il desiderio, più ideologico che concretamente organizzato, di incentivare  una attività  collaterale come la ricerca che è la parte debole della formazione.  Ma, dimenticando  di valutare la didattica, si continua a sottovalutare  che il compito principale dell’Università  è quello di  formare laureati qualificati e non conseguire brevetti, attrarre finanziamenti  per ricerche applicate e pubblicare articoli su riviste scientifiche accreditate. 
Questa impostazione appare intrisa di molta retorica: basti pensare alla scelta di mantenere il valore legale del titolo di studio che, equiparando e rendendo identiche buone e cattive facoltà, non premia né la ricerca né il merito.
Sarebbe anche opportuno fare un po’ di chiarezza sulle specificità delle attività di didattica e di ricerca, sui loro differenti obiettivi che, è bene ricordarlo, non sono  uguali o  facilmente sovrapponibili: la didattica richiede coordinamento  funzionale e aggiornamento  per migliorare le chances  di lavoro  dei laureati;  la ricerca chiede sostegno e organizzazione per competere  con altri centri di ricerca  e attrarre finanziamenti esterni.
L’istituzione dell’Anvur è un lodevole passo in avanti per portare la valutazione della ricerca ad incidere sullo sviluppo dell’Università  sia migliorando i docenti sia migliorando gli atenei.  Potrebbe essere l’inizio di un processo di valutazione che conduca oltre il livello dell’auto-valutazione e ci avvicini ai valori concreti espressi dal mercato  internazionale della formazione.  Sarebbe necessario però superare almeno la composizione tutta accademica dell’Anvur ed aprirla a valutatori esterni.  
 Ora, in un quadro generale che vede la riduzione dei fondi, la contrazione dei docenti per un sostanziale blocco del turn over e non aggiornamento delle conoscenze, sparuti incentivi alla trasformazione e perdita di valore della laurea, ci vorrebbero riforme meno retoriche e più realiste per  migliorare  l’università e farla avanzare di qualche posto nel ranking internazionale dove il primo ateneo italiano , Bologna,  si situa al 195° posto.

Architettura come scuola
Le scuole  di architettura soffrono innanzitutto di un gigantesco affollamento di laureati che è andato oltre ogni ragionevole rapporto tra domanda e offerta e che ha cominciato a farsi sentire nel calo delle immatricolazioni scese in otto anni del 15%, e dovute a diminuzione di occupazione e riduzione di guadagni (140.000 iscritti agli Ordini, più del doppio della media europea).  Continuiamo comunque a laureare circa 6000 architetti l’anno nonostante l’alta percentuale di abbandoni scolastici (circa il 30% degli immatricolati) .
Ogni ateneo ha introdotto la formula del 3+2 in modo diverso senza rispettare l’impostazione originaria della riforma (un solo triennale di base con molte specializzazioni biennali) e spesso senza eliminare il tradizionale corso quinquennale che è frequentato solo dal 25% degli studenti italiani (il 75% frequenta il 3+2).  Pochissimi si fermano alla triennale, l’85% continua con le specialistiche per completare gli studi,  dimostrando che l’assunto della riforma Berlinguer che  il titolo triennale ( più un diploma che una laurea) serviva per coprire posti intermedi nel mondo del lavoro,  non si è verificato.   Salutari esperienze pratiche, durante la laurea, introdotte con i tirocini esterni hanno avuto grande successo, anche se il monte ore ad essi riservato ( 150/200 ore in cinque anni ) potrebbe utilmente essere aumentato. Non sono stati previsti, cosi come per altre professioni, tirocini obbligatori post laurea per l’iscrizione agli Ordini, lasciando inalterato, anzi incredibilmente complicandolo, l’inutile e vessatorio esame di stato. Sul rapporto poi tra valore legale del titolo di studio ed esame di stato ci sarebbe anche da capire a cosa serve mantenere entrambe le condizioni per la professione che, notoriamente, non verificano le conoscenze minime del mestiere. 
Infine il terzo livello di formazione, masters e dottorati, a parte alcune eccellenze, soffre di poca specializzazione e di poca partecipazione (per entrambi la percentuale di laureati frequentanti è ad una sola cifra, 7/9 %) e non sembra migliorare le possibilità occupazionali . Soprattutto i dottorati soffrono per diminuzione delle borse di studio e per un uso del titolo ridotto solo al campo accademico. Queste  specializzazioni post laurea infatti non sono  ancora riconosciute come  titoli qualificanti nel mondo del lavoro come  invece succede dovunque in Europa.

 La formazione
 I punti deboli dell’attuale formazione possono essere sintetizzati in tre parole: generalista, professionalizzante e incompatibilità.
La formazione non è chiaramente impostata su una delle due scelte, generalista o professionalizzante, non riuscendo quindi a guadagnare i meriti e ridurre gli svantaggi di entrambe.
Nella grande maggioranza prevale un orientamento generalista frutto di una tradizione culturale che in passato ci ha consentito grandi vantaggi, ma che oggi, per le (ex) facoltà professionali, non è più sufficiente.
Ma cos’è una formazione generalista?  Una formazione non specialistica, dove viene data importanza ai “fondamentali” come nella tradizione umanistica, ma che non qualifica per il lavoro e che necessita di ulteriore apprendimento: il terzo livello universitario.
Una formazione siffatta può produrre un laureato colto ma non può produrre una figura tipo “coordinatore della progettazione” che anzi richiederebbe, in un team progettuale, larghe competenze più che ampia cultura.  Salvo che non si ritenga che il lavoro progettuale inizi e finisca con l’elaborazione del "concept" demandando ad altri lo sviluppo esecutivo.
La formazione professionalizzante è invece più chiaramente orientata al mestiere e alla sua pratica, con uno spostamento della figura dell’architetto: da creatore unico a collaboratore in gruppo.  Nel rapporto cultura umanistica saperi tecnici lo sbilancio dovrebbe andare all’acquisizione di competenze per il mestiere e in questa logica si dovrebbe lasciare al terzo livello, al dottorato di ricerca, il compito di un’acquisizione critica, di alto livello, delle conoscenze.
Il progetto di architettura, lo specifico architettonico è sempre stato l’opera e non il saggio scritto; non gli articoli ma i progetti ne sono, infatti, lo agire più importante ed è evidente che il centro della sua formazione deve essere rappresentato dalla capacità di saper progettare e di farlo in team.
Infatti, è nel progetto che la ricerca  in architettura  trova il suo fondamento e il suo scopo.
Ma si può imparare a progettare con docenti che non hanno mai costruito nulla  o calcolato nessuna struttura  statica  antisismica ?
Sembra un paradosso del nostro sistema universitario il cui fine, mettere tutte le energie della docenza al servizio dell’Istituzione, si è ribaltato nel suo opposto, un invecchiamento delle conoscenze e delle competenze. 
 Nell’Università i docenti che fanno professione sono considerati insegnanti di serie B e non fanno carriera, non accedendo ai ruoli dirigenziali; le loro opere, infatti, non sono valutate come ricerca e costoro sono messi ai margini della “governance”.
Si assiste purtroppo alla svalutazione di ciò che è il focus della formazione, la qualità del progetto architettonico inteso come luogo privilegiato d’incontro collettivo tra la didattica e la ricerca applicata.
C’è una tendenza di pensiero accademico che ritiene che tutte le discipline siano quasi sullo stesso piano, uguali ed equipollenti e che tutte formano in ugual modo l’architetto.  Tale tendenza ha spodestato il progetto di architettura dalla centralità della formazione, e ha facilitato la sua sostituzione con un diverso concetto di progetto, il progetto tecnologico.
Perdendo la centralità del progetto, la formazione si è come liquefatta suddivisa in tante sub-discipline che non restituiscono quella ricerca di senso che ha sempre caratterizzato il progetto architettonico.   
Il vecchio tripode della formazione, progetto, storia e struttura che sosteneva la gerarchia degli studi fino a qualche decennio fa, è poi diventato quadripode, con l’aggiunta di tecnologia, eterea ed evanescente materia nata da una costola di tecnica delle costruzioni.
Ma,  svincolatasi  successivamente da ogni fedeltà storico-critica  relativa al mondo delle  costruzioni  e liquefattasi  nell’Università ogni gerarchia contenutistica, la tecnologia  ha intercettato la pretesa  contemporanea della “tecnica”  di scrollarsi di dosso  ogni scopo esterno a se stessa. Cosi, accogliendo tutte le istanze di ammodernamento  prodotte dal mercato  e dal  sociale e legate alla sostenibilità ambientale ed energetica, il sapere tecnologico si  propone come  autonoma progettazione tecnologica.  Da mezzo si sta trasformando in scopo secondo la classica eterogenesi dei fini.
D’altro canto una riflessione sulla divisione in tante sub discipline in cui si è frantumato il sapere architettonico oltre il tripode tradizionale, sarebbe quanto mai utile per ripensarne i contenuti.
Ciò che emerge nella formazione attuale è, infatti, una certa indifferenza alla ricerca di senso dell’architettura, ai rapporti tra contesto, costruzione, linguaggio e uso che l’ha caratterizzata fino ad ora. E tale condizione, che oscura le domande sul valore civile che essa dovrebbe e potrebbe svolgere, è facilitata anche dall’impossibilità di sperimentare ciò che si progetta:
L’incompatibilità tra insegnamento e professione, infatti, blocca ogni avanzamento culturale dei docenti e ogni miglioramento della formazione. Enti europei come l’Unesco e l’Uia hanno sentito il bisogno già nel 2000 di raccomandare alle università di selezionare docenti di architettura che abbiano uno stretto contatto con la pratica professionale ovvero una solida esperienza.
Codificata nel 1996 ma iscritta da tempo nelle nostre leggi come obbligo  per tutti i dipendenti pubblici con punizioni e sanzioni ai trasgressori, l’incompatibilità  è una vecchia  ideologia statalista che vede il privato come possibile corruttore   degli interessi collettivi che l’Università  rappresenta.    
Il paradosso dell’incompatibilità è che un’esigenza conclamata nel clima sessantottino della lotta al professionismo, contro la “riduzione culturale” come si diceva allora, si sia ribaltata nel suo opposto, bloccando ogni sviluppo e aggiornamento dei saperi accademici.
Renato Nicolini sosteneva che gli unici movimenti di riforma dell’Università erano stati due. La contestazione del 1966, sfociata poi nel ‘68, e la Tendenza nel 1980, che inventò il rapporto morfologia tipologia e l’architettura della città contro le fughe nella grande dimensione o nella tecnologia. Eppure questi movimenti hanno finito per incoraggiare una deriva anti-professionale che alla fine ha ribaltato quelle richieste culturali nel loro opposto: paralisi e declino dei saperi accademici con esaltazione dello scrivere piuttosto che del progettare e del costruire.
Per arrestare un declino di contenuti che acquista velocità ad ogni riforma governativa che vuole regolare dall’alto,  con centralismo e dirigismo e senza incentivi,  tutte le diverse discipline dentro le Università,  si dovrebbe sperimentare  un qualche  modo per rendere centrale e collettivo il progetto di architettura.
 Tra le tante ipotesi possibili, la soluzione dell’intra-moenia (come per i medici) potrebbe essere un passo su cui val la pena interrogarsi. Una progettazione interna alle ex Facoltà, regolata e calmierata, in grado di competere con gli studi privati nelle commesse pubbliche.
(E-journal, n. 16/2013 pag.80-87 , www.uam-productions )






martedì 2 aprile 2013

Lungomare e Plebiscito una questione di vuoti


Da alcuni giorni, da quando le auto hanno ricominciato a percorre via Caracciolo mi si riaffaccia  la domanda su quale  destino sia riservato al nostro lungomare.
Mentre si rivede il mare dall’auto insieme all’invasiva scogliera alla rotonda Diaz con pochi joggers e ciclisti che usano i marciapiedi e la pista, non sembrano passati i quasi due anni dal giorno del “sequestro” o della “liberazione”, secondo le opinioni, del lungomare: tanto è calzante, piacevole e tradizionale percorrere via Caracciolo con l’auto fosse anche solo per poco tempo.
Ma presto, almeno cosi ci si augura, riparati i danni agli edifici della riviera, rimessa in moto la macchina della Metropolitana, per  completare quella  linea 6 che ci siamo lussuosamente concessi, passata anche la seconda tappa della Coppa America, con la sua rutilante invasione mediatica,  chissà  se  via Caracciolo tornerà come prima, prigioniera di una ideologia che non si fa azione ma solo interdizione.
Il Comune, in quasi due anni, non è riuscito a proporre nulla, non dico un progetto ma nemmeno un’idea per la trasformazione di questo splendido luogo. Il suo compito si è limitato a quello di togliere le auto, ritenendo che quest’azione avrebbe magicamente dato nuovo senso al lungomare e filo da tessere ai  sostenitori ambientalisti.
Ma un boulevard alberato come poteva acquistare senso se gli si toglieva l’anima che lo teneva in vita?
Eliminando proprio quelle auto che ne sono la sua ragion d’essere, gli si è inflitta una seria menomazione: lo si è  svuotato, devitalizzato e in fin dei conti privato  anche di parte della sua bellezza.  Togliendo la funzione per cui era nato, l’essere parte di un lungomare da Mergellina a Castelnuovo,  quel tratto sequestrato è rimasto solo forma vuota, disponibile a tutti gli usi come una specie di  terra di periferia,  ogni tanto animata e vitalizzata da eventi con lunapark ,chioschi e feste.  
Ma in questo caso il tentativo sperimentale di  sostituzione di funzioni ,  da boulevard a spazio pedonale,  non poteva dare gli esisti sperati: un boulevard non si presta alla semplice pedonalizzazione  e non è una questione di asfalto ma di dimensione e di funzione. Un boulevard collega parti urbane, è un continuum, e sequestrare una sua parte, interromperlo brutalmente, modifica l’intero percorso stradale.
Basta provare a guardare le foto pubblicitarie delle agenzie turistiche che propagandano su internet il lungomare per rendersi conto che quelle immagini, per un napoletano, sono fuori dell’ordinario, sembrano scatti fatti dopo uno sciopero generale o dopo una qualche catastrofe: strade incomprensibilmente vuote, poche persone, un’atmosfera di attesa incombente.
Diverso discorso va fatto per via Partenope perché la strada in questo caso è definita formalmente e funzionalmente dalla palazzata a mare e non ci sono questioni di traffico veicolare di attraversamento come a via Caracciolo. L’intervento qui si presenta più facile e probabilmente un progetto di restyling è sufficiente a ridare unitarietà all’insieme una volta eliminato o ridotto il transito auto.
Per nulla paragonabile è la riuscita pedonalizzazione di piazza Plebiscito. La piazza reale è, infatti, uno spazio creato per accogliere, dove il significato è proprio nel vuoto; l’opposto del lungomare dove il vuoto creatosi è solo una mancanza, un’assenza.  Piazza Plebiscito è, infatti, uno spazio che gioisce della presenza della gente e degli eventi.  Lì, infatti, l’auto era abusiva, cosi come lo erano le carrozze a cavalli. Tolti gli elementi invasivi e abusivi, la piazza è tornata a mostrare l’alta qualità delle sue architetture e che danno forma allo spazio.
Tolte invece le auto da via Caracciolo, rimangono il golfo, la villa comunale, il mare e un’insostenibile assenza che era il trait d’union tra queste rinomate qualità.
Qui c’è bisogno di un’idea progettuale forte che sappia interpretare il luogo sostituendo il boulevard con qualcos’altro: riguadagnare il mare, aumentare il verde, dare unità alla villa comunale, attrezzare passeggiate, realizzare spazi per eventi e aree sportive.  
Credo che bisogna pensare alto  anche se scarseggiano i finanziamenti, non si può sostituire la forza ottocentesca di un boulevard alberato ,  con micro proposte come quella fatta dall’assessore De Falco e apparsa su questo giornale  ( 16.3.2013) : togliere l’asfalto e la recinzione alla villa.
Inoltre, se si considera che tra qualche anno, almeno si spera, si aprirà la stazione  Arco Mirelli che convoglierà nella villa e sul lungomare grandi quantità di cittadini che utilizzeranno questo unico affaccio sul mare come un grande polo di intrattenimento , si capisce meglio l’importanza e l’urgenza di un progetto ampio e non di un restyling.
 Accanto poi a una visione che giustamente vuole esaltare le occasioni d’intrattenimento di una rinnovata centralità urbana di quest’area, va affrontato il problema del traffico est-ovest.  L’esperienza già maturata nel lungo tempo della chiusura totale al traffico di via Caracciolo ha dimostrato che la riviera di Chiaia non è sufficiente a smaltire il flusso veicolare nelle ore di punta della giornata.  C’è necessità quindi di misurarsi anche con il tema della mobilità su ruote e non semplicemente o autarchicamente ignorarla come se lo spazio pubblico di cui parliamo non fosse un bene comune speciale in equilibrio nel sistema città.
Il tema del miglioramento della viabilità senza fare danno alla villa e al lungomare è un tema già studiato in passato e ancora vivo. Nel prg del 1970 era stato previsto un sottopasso lungo via Caracciolo, negli anni  ottanta e novanta sono stati prodotti studi per tunnel sotterranei più lunghi e addirittura di tunnel sottomarini che non recavano danno alcuno al sistema dei luoghi.
Il tema era ed è quindi evidente alla cultura urbanistica della città e, nonostante le implicazioni, oggi più che mai chiare, dovute al delicato regime idrogeologico dei terreni dell’area, è indispensabile
porre mano  ad un progetto d’area,  ad un Piano urbanistico attuativo che,  considerando  tutte le opzioni in campo, programmi  gli interventi nel tempo  escludendo  soluzioni temporanee che danneggiano la maggioranza dei cittadini . Non servono archistars o mega studi internazionali  per proporre progetti fattibili,  serve una sinergia tra Comune e città che innanzitutto  si rafforzi con l’apertura al confronto e alla discussione . Conoscere le proposte e discuterle è proprio ciò che distingue un comportamento democratico da uno dirigistico e nel caso di via Caracciolo e della villa comunale  la discussione non si può esaurire dentro il Comune cosi come i progetti  di trasformazione non possono essere fatti in casa . Servono confronti pubblici tra proposte di esperti, servono concorsi e prima di tutto concorsi di idee. La trasformazione di questo luogo  pubblico esige l’approvazione dei cittadini, essa va resa pubblica, discussa e approvata, non ci sono strade traverse.
A Parma, i cittadini hanno fatto cambiare il progetto in cantiere per piazza della Pilotta, nonostante l’architetto Mario Botta avesse vinto il concorso internazionale. Piccoli esempi di partecipazione attiva sulla trasformazione dei beni comuni di cui abbiamo grande bisogno.

Repubblica Napoli  28.3.2013 (pubblicazione parziale) 

sabato 9 febbraio 2013

periferie dimenticate


I programmi di riqualificazione delle periferie non sono azioni che si realizzano in tempi brevi.  Disagio sociale e degrado edilizio si sommano in una miscela che può vanificare facilmente qualunque sforzo. Ma il nostro compito  principale  resta  quello di porre mano a questo fallimento  urbanistico che si è prodotto nei quartieri pubblici del secondo dopoguerra e tentare di riqualificarli con operazioni  pazienti e ad ampio raggio che possono durare decenni.
Non corrispondono quindi questi interventi cosi lunghi, ai tempi corti della politica. Le iniziative governative, regionali o comunali in questo senso producono risultati solo dopo, tre, quattro  stagioni politiche di cui nessuno può vantare l’esclusiva.
Ai Comuni poi compete portare avanti iniziative di altri e proporre nuove iniziative che altri completeranno; ma a  Napoli però sembra che questo altalenante movimento non stia avvenendo.
Non solo non sono sostenute le iniziative di riqualificazione in corso da tempo , ma non ne sono proposte di nuove a dimostrazione di una trascuratezza e una mancanza d’interesse per la periferia assai negativa.
Languono o sono fermi tutti quei vecchi interventi compresi nei piani di riqualificazione urbana come a Ponticelli, a Soccavo, a Poggioreale e  al De Gasperi e sono in stallo gli interventi per le Vele (ne parlava giorni fa su questo giornale, nelle lettere al direttore, Antonio Lavaggi).
Non sto parlando di progetti sulla carta, ma d’interventi finanziati per alcuni dei quali ci sono cantieri aperti e fermi ed è possibile che i finanziamenti non impiegati rischino di andare persi.  
La politica potrà trovare anche qualche escamotage per non perderli del tutto quei finanziamenti, ma è la città più disagiata che ne subisce le conseguenze, sprecando quel tempo che servirebbe per migliorare se stessa.
Non credo che questa situazione sia il prodotto del pre-dissesto finanziario che sta attraversando il Comune;  i PRU di cui parlo sono stati  tutti finanziati, anzi qualche gara, pure bandita, è stata annullata.
Ci sono poi iniziative d’immagine che il Comune persegue e per le quali riesce ad ottenere finanziamenti e nelle quali investe soldi propri che ai miei occhi appaiono di pura visibilità mediatica ( Coppa America, Forum delle culture) ; cosi come ci sono anche introiti che il Comune incassa dalla vendita del patrimonio pubblico residenziale che purtroppo non vengono re-investiti nella casa.
Come è noto la questione delle case a buon mercato a Napoli è una questione aperta, una emergenza che dura  fin dall’inizio del Novecento. Mancano case e affitti a prezzi sostenibili in una quantità che è abnorme rispetto alle situazioni abitative degli altri comuni italiani.
Inoltre, a differenza di altre città che costruiscono ancora case sociali, noi possiamo soprattutto, se non solamente, riqualificare l’esistente perché abbiamo già consumato quasi tutto il suolo libero del nostro territorio e non possiamo permetterci nuove urbanizzazioni.
Poche speranze infine abbiamo che i privati, nell’ attuale forte  crisi edilizia,  investano in edilizia sociale senza congrui incentivi pubblici e purtroppo nessun segnale  positivo  ci viene dalla attività di  sostegno delle Fondazioni  Immobiliari per il Social Housing  locale che in città come Parma o  Milano qualche piccolo quartiere a prezzi contenuti pure costruiscono.
Un merito va riconosciuto all’attuale Amministrazione, ed è quello di aver studiato e poi trasformato in proposta di variante urbanistica (non approvata però) un aumento delle residenze a scapito del terziario già previsto. Un’operazione urbanistica per venire incontro al forte fabbisogno di case con aumento della percentuale di  residenze  sociali, senza aumento delle cubature già previste dal prg.
Purtroppo questo studio, di cui si parlava già alcuni anni fa, se sarà trasformato in norma di piano, arriverà in un momento di grave crisi del settore delle costruzioni. Una crisi per troppa edificazione di nuove abitazioni (si calcola che dal 1998 al 2007 si sia costruito in Italia il 30% del patrimonio residenziale esistente) che sommata alla crisi economica che attraversiamo, non potrà stimolare nessun privato a intervenire se non vengono  previsti  adeguati incentivi  pubblici e facilitazioni.
E proprio perché Napoli fa caso a sé nell’emergenza abitativa, un forte impegno a non perdere finanziamenti, a trovarne di nuovi e ad attivare forme concrete e adeguate di partenariato pubblico privato sono le sole azioni politiche indispensabili per rilanciare la trascurata riqualificazione delle periferie


<<Repubblica Napoli >> 19.1.2013

La distanza tra università e lavoro


I dati del Censis sulla società italiana 2012 mettono in rilievo il  trend negativo delle iscrizioni all’Università che si accompagna ai dati sulla  recessione  economica del nostro paese.  Le immatricolazioni all’Università sono calate del 6,3%, confermando una progressiva diminuzione degli studenti che va avanti per lo meno dal 2007.  Tale contrazione generale delle iscrizioni non si riflette in modo omogeneo su tutte le lauree perché quelle tecnico-scientifiche aumentano a scapito di quelle umanistiche.
Accanto a questo declino e trasformazione degli studi superiori, si assiste nelle scuole medie ad  un aumento degli  iscritti alle scuole professionali ( +2%)  mentre  diminuiscono quelli ai licei,  per cui oggi la maggioranza degli studenti medi si colloca nelle  professionali (52% del totale).
L’insieme di questi dati mostra che c’è un bisogno di lavoro ed una disillusione per l’avanzamento sociale dei laureati  che si sta diffondendo nel  nostro paese come un vento debole ma costante. Si privilegia la ricerca del lavoro alla ricerca del titolo.
I cambiamenti nell’università dovuti alle due principali riforme, quella Berlinguer del 1999 e quella Gelmini del 2010, non hanno migliorato le prospettive pratiche alla schiera dei laureati italiani. Le riforme, infatti, si sono occupate principalmente di organizzazione del sistema universitario e non della qualità della formazione impartita.
Formule come il 3+2, o Dipartimenti al posto di Facoltà,
se hanno migliorato (ma i bilanci sono contraddittori),  ovvero possono migliorare,  l’organizzazione e razionalizzare  disfunzioni non hanno  certo inciso  sull’aggiornamento e il rinnovamento necessario dei contenuti della formazione.
Non ci sono incentivi alla didattica e gli incentivi alla ricerca  non sono individuali, ma vanno alla struttura dell’Ateneo contando solo il 10% del fondo di finanziamento.
In sostanza si sconta un mancato aggiornamento dei saperi rispetto alle domande sociali e al mercato del lavoro. Ma a soffrir di più, credo,  sono  i gruppi di lauree  che insegnano mestieri,  che preparano  cioè ad una professione ( ingegnere, architetto, geologo, avvocato, agronomo,  etc.)  alle quale serve, oltre un sapere storico-critico e teorico,  una pratica diretta, una  sperimentazione nel vivo delle risposte  alle domande  della società  che non possono tutte essere rimandate  al dopo la laurea.
In quest’ambito di lauree, la formazione accademica oscilla tra un obiettivo generalista e uno specialista senza aver scelto esattamente e chiaramente quale fine darsi e quale politica di differenziazione tra atenei perseguire.  
Ne consegue una preparazione che spesso non è sufficiente al laureato ad inserirsi  positivamente nel mercato del lavoro:  una preparazione incompleta che sembra richiedere un terzo livello di formazione ,  attraverso  masters  o  tirocini  esterni .
Per la verità il 3+2 aveva come obiettivo di realizzare un triennio generalista ed un biennio specialistico orientato alla professionalizzazione  ma,  pur nella situazione  variegata dei nostri atenei,  il rinnovamento verso la  professionalizzazione non c’è stato.
Sono mancati gli incentivi (premialità e carriere) ad una trasformazione della conoscenza,  più che in maggior sapere,  in un saper fare che nessuna delle due riforme  ha previsto  .
Siamo eredi di una cultura idealista che fatica a trasformarsi in tecnico-scientifica ed a  confrontarsi con uno scopo pratico. Prendiamo per esempio la questione dell’incompatibilità tra professione e  docenti.
Com’è pensabile che mancando una pratica  professionale ai docenti, perché vietata,  si possa bene insegnare un mestiere ?
Come si può insegnare a progettare un edificio senza averne mai costruito uno o come si possono calcolare le strutture statiche senza aver mai realizzato un edificio antisismico? E’ un mistero della fede, oscuro alla ragione.  Solo ai medici è consentita un’attività professionale intra-moenia indispensabile allo sviluppo delle competenze .
Certamente non tutti i docenti mancano di esperienza pratica e non tutti gli atenei la proibiscono tassativamente, ma coloro ai quali è affidato il rinnovamento dell’università ne sono privi.
Una legge ipocrita del 1996, proibendo con sanzioni e multe, attività lavorative per i pubblici dipendenti la estese anche ai docenti universitari consentendola solo a coloro i quali non avrebbero potuto fare carriera accademica.  Gli effetti perversi di questa legge si riverberano negativamente sull’insegnamento che è  logicamente più formale che basato su solida esperienza.
Senza un bilancio condiviso della riforma del 3+2, i cambiamenti della legge Gelmini sono destinati ad aprire altre sperimentazioni su formule e regole i cui esiti sembrano insufficienti alle richieste del mondo del lavoro.
Tra i tanti propositi iniziali del governo Monti c’era anche quello di valutare la possibilità dell’abolizione del valore legale del titolo di studio che avrebbe costretto  gli Atenei a competere fra loro facendo emergere le diverse qualità  esistenti sia della ricerca sia dei  Corsi di Laurea.
Il governo accantonò subito ogni proposito di nuovo cambiamento  sopendo  le istanze di una cultura privatistica  che guardava l’Università in modo differente. 
Ma  innescare la competizione fra atenei e il  riconoscimento  pieno del merito per ricerca e didattica-  riconoscere cioè  le università  migliori e peggiori- sarebbe già una scelta anti recessiva.   
Forse non è un gran male la diminuzione degli immatricolati, anche se l’Italia ha un basso numero di laureati rispetto alla media europea (20% contro 34%).    Ma è  soprattutto  un male il fatto che a fermarsi  prima  siano gli studenti  di famiglie con meno capacità economiche,  sulle quali , come per un  ciclico ritorno al passato,  incombe una selezione per censo.  
Repubblica Napoli 18.12.2012

venerdì 21 dicembre 2012

Dite a Fuxsas che la grandeur è finita



IN QUESTI giorni è stato presentato con molta enfasi il progetto della stazione di piazza Nicola Amore di Fuksas. Dall' intervista di Tiziana Cozzi, pubblicata su questo giornale giovedì scorso, emerge l' obiettivo di riqualificare la piazza nell' ottica della pedonalizzazione anche del Rettifilo e l' intenzione di fare una stazione-museo coperta da una calotta di vetro mettendo in mostra i reperti del tempio dorico ritrovato. La prosecuzione dei lavori per la metropolitana è una necessità fisica di questa città troppo congestionata, che ha quasi perso la misura umana del suo centro storico; ma non altrettanto necessario appare ampliare le stazioni e occupare prezioso suolo pubblico come propone il nuovo progetto Fuksasa differenza di quello preliminare dove egli proponeva una stazione ipogea con alcuni lucernari. Detto in altri termini e con meno humour dell' archistar romana, il nuovo progetto vuole liberare la piazza dalle autoe occuparla con un edificio di vetro, una copertura global, buona per molte occasioni, posta quasi al centro di essa e dentro la quale mettere in mostra i reperti archeologici che i pedoni potranno vedere anche dall' esterno. S S i assiste qui a un ampliamento di una tendenza del progetto contemporaneo che non riesce a stare dentro al tema, in questo caso il sottosuolo, ma che vuole emergere come protagonista della scena urbana. Anche a piazzetta Santa Maria degli Angeli succede la stessa cosa con la conseguente futura scomparsa della piazzetta. Analogamente anche nella stazione di piazza Garibaldi l' immenso pergolato, vera foresta di tubi di acciaio, copre una nuova ulteriore galleria commerciale che toglie metà piazza al giardino pubblico pur previsto. Diverso è invece il modo di progettare la stazione Municipio, per esempio, dove Siza, anche in presenza di importanti reperti archeologici, non per questo invade la piazza. Nella stessa tendenza di rispetto della città si situa anche la bella stazione Università e la rinnovata piazza Borsa riqualificata con un sobrio ed elegante intervento. E devo annoverare tra queste anche la stazione di Salvator Rosa, prototipo delle stazioni di Napoli, dove l' esuberanza invasiva del progetto è giustificata dal disordinato e confuso spazio urbano esistente. In questo contrasto di tendenze l' invasione dello spazio pubblico sembra per la verità cosa antitetica alla sua liberazione e non in linea con le altre proclamate liberazioni fatte da quest' amministrazione. C' è una recente deriva che sta minacciando le città storiche italiane, da Venezia, a Torino, a Roma, grandi firme propongono progetti che alterano notevolmente quell' equilibrio stratificato che esse hanno raggiunto attraverso molto tempo. Per esempio i due grattacieli a Torino (Banca Intesa e Regione), l' Ara Pacis a Roma, il ponte in vetro sul Canal Grande a Venezia. Andrebbero presi molto sul serio gli allarmi lanciati da Salvatore Settis anche su questo giornale (il 2 ottobre) per la tutela dei centri storici. Partendo dalle analisi delle conseguenze negative per Venezia (estraneità e costosità del ponte in vetro di Calatrava), Settis vede minacciati i centri storici da inopportuni interventi di trasformazione che, attraverso la copertura di grandi firme, rompono la soglia di tolleranza e che, teme Settis, aprono le porte a proposte di più modesti epigoni che non potranno più essere fermate. Non si vuole qui sostenere una questione di stile, resuscitare cioè il dibattito sul rapporto tra antico e nuovo, come se non fosse possibile immettere nel centro storico architetture nello stile "libero" che contraddistingue l' architettura contemporanea; ma, al contrario, proprio perché libero quello stile deve essere sottoposto a una qualche approvazione che non può essere solo burocratica ma democratica, per lo meno quando interessa e trasforma lo spazio pubblico della città. E ciò è tanto più importante quando questo spazio è definito e consolidato storicamente come l' ottocentesca piazza Nicola Amore. Si dirà che pur di avere un' opera di una archistar si può passare sopra l' altezza dell' edificio in vetro in mezzo alla piazza che ostacola la vista prospettica, che i reperti archeologici ritrovati sono una risorsa che è meglio mettere in mostra alla luce del sole piuttosto che tenerli in bui spazi ipogei, si dirà che il vetro è quasi immateriale, leggero e trasparente e che consente di vedere ed essere visti; ma a parte il fatto che una cupola di vetro è quanto di più global si possa pensare, andrei a vedere cosa è diventata la trasparenza del vetro in città, alla stazione Montesanto o a piazza Dante, prima di eleggere il vetro a dimensione immateriale. Non si tratta qui di ridurre l' architettura a pura funzionalità, ma una maggiore attenzione alla pratica del progetto piuttosto che al concept va richiesta e pretesa. Il tempo della grandeur anche per le stazioni è finito. Consentirsi una follia scultorea come la stazione di Soccavo di Kapoor dai costi proibitivi e superiori ai cento milioni di euro è stata una smargiassata che forse potremmo rivendere a qualche sceicco arabo quando si deciderà che cosa fare delle diverse parti scultoree in cui la stazione è divisa e che sono depositate da qualche parte. Credo che una richiesta di maggior realismo vada fatta all' architettura pubblica, prima di tutto come affermazione di un' attenzione etica e culturale in rapporto al contesto storico e poi anche per una valutazione dei costi e dei benefici che è, ahimè, spesso sottaciuta negli appalti pubblici. Sorprende infine che i beni pubblici siano ancora cosi trascurati a Napoli e che non ci siano indizi di un coinvolgimento della gente per scelte che così tanto li riguardano. Stando alle indicazioni che emergono dall' attuale Biennale di Architettura di Venezia, sembra che il lavoro delle archistar sia un po' diminuito di interesse sulla scena internazionale a vantaggio di una architettura civile di maggior realismoe utilità sociale: forse è solo un debole venticello ma spira in altra direzione.
SERGIO STENTI

venerdì 14 settembre 2012

Facciamo delle Vele un reperto archeologico

ROVINE giganti distese mezze morte su terreni vuoti si stagliavano all' orizzonte di Secondigliano. Erano edifici ciclopici che i circa seimila abitanti avevano odiato e avevano abbandonato e poi si erano intestarditi perché non fossero mantenuti in vita: volevano solo che scomparissero tante erano le sofferenze che ricordavano loro quando le avevano abitate scappando dai vicoli del centro storico di Napoli e non solo. N ell' ultima fase di vita quegli edifici diventarono luogo di fabbricazione e distribuzione di droga, covi per nascondere partite al consumo, nascondigli dove scappare e seminare gli inseguitori. Eppure non era facile demolirle, tre vennero giù con difficoltà ma altre quattro rimanevano e nessuno sapeva cosa fare. Troppo ingombranti, troppo calcestruzzo, troppo ferro e poi dove seppellirle? Le discariche erano tutte già colme di rifiuti urbani che si ammassavano nelle larghe vie. Ma il tempo sgretolava il calcestruzzo, le muffe segnavano i muri, l' acqua corrodeva le strutture, e gli intellettuali si interrogavano: ma che cosa farne? Tutti convenivano: non erano edifici da abitare ma erano però incredibilmente impressionanti, di un attraente scenografico, fuori dimensione: mai vista una cosa simile dopo l' Ospizio dei Poveri di Fuga. Perché perderle quindi? Da ecomostro inabitabile divennero un set cinematografico, addirittura un racconto, uno scenario dell' orrido; droga, camorrae letteratura allargarono di molto la loro fama negativa, simbolica e di successo. La lenta rivincita della legalità si accompagnò pari passo con la smobilitazione degli abitanti e le difficili demolizioni; le piazze dello spaccio durarono ancora un po' , poi si esaurirono e si spostarono altrove. Da ruderi di un sogno di modernizzazione divennero un' icona memorabile che colpì l' immaginario, segno di un esperimento estremo d' inabilità, di un' epoca alla ricerca cieca di una città altra di cui non avevano bisogno. Insomma si trasformarono da residenze a immagine dell' estremo, a icona, non certo a monumento. Non c' era nulla da tramandare, ma solo da vedere: una rovina del passato, quasi morta, ma da conservare come segno. Che cosa altro è un' icona se non un' immagine? I giganti distesi piacevano, venivano bene nelle riprese televisive, uno scenario estremo, sotto casa, compresi quegli interni così somiglianti alle carceri piranesiane. Intere scolaresche andavano in gita con i professori a vedere le case dei tossicodipendenti e quelle delle famigliole che si arrangiavano nella confezione delle dosi. Erano dei "droga tour" che spopolavano. Gli architetti avevano voluto sperimentare idee nuove a cavallo del ' 68. Utopie sociali e utopie tecnologiche e lotte per la casa che divennero lo sfondo ideologico e politico, il quadro entro cui alcuni spingevano per applicare nuovi processi industriali alle costruzioni per il popolo: era un malinteso imperativo della modernità. Ressero poco più di quindici anni quegli edifici a tenda, poi furono dismessi. Non era chiaro che cosa si dovesse fare con quei ruderi: seppellirli sottoterra o farci crescere rampicanti. Oppure riusarli per altro scopo ove ce ne fosse uno chiaro, venderli ai privati, farci facoltà universitarie, ospedali, atelier, case per lo studente. Tutte le più disparate idee non trovarono però strade concrete per affermarsi. Il Comune, che non era riuscito a gestire quei transatlantici quando erano in attività, non aveva certo capacità finanziaria e organizzativa per guidarne le trasformazioni e le abbandonò. Le Vele pian piano si degradarono fisicamente, si sbriciolarono, l' acqua le faceva marcire, l' erba cresceva e nessuno poteva avvicinarsi: emanavano un inconfondibile odore di abbandono. Ma non crollarono, erano stranamente costruite in modo solido e infatti stettero lì per molti anni.I vecchi abitanti non riuscivano più a sopportarne la vicinanza e il ricordo ora che erano diventati inquilini normali, ordinari, proprio loro che non lo erano mai stati. Si erano accontentati, infatti, di alloggi banali, disegnati da architetti-burocrati impauriti; però, per loro, tutto era meglio fuorché ritornare ad abitare nei vicoli anche se moderni. La commissione incaricata dal Comune non dette risposte tecniche chiare. Una sola cosa appurò: con i soldi della riqualificazione si potevano fabbricare tutte le case che si volevano. La riqualificazione costava molto più del nuovo. Nessuno sapeva se lo Stato avrebbe investito sul mantenimento di un' icona, data l' aria di crisi che circolava. Qualcuno si azzardava a considerare le Vele come una specie di Ospizio dei Poveri di periferia e sperava che in fondo potessero avere la stessa sorte dell' originale di Fuga: costruito, incompiuto, abbandonato, ma, dopo qualche secolo, curato e tenuto in piedi anche se non restaurato. Speravano costoro che potesse accadere alle Vele una storia simile: le rovine sembravano simili, non si distruggevano. Si sapeva che le pietre della storia alla fine venivano restaurate anche se per fini non detti, anche al prezzo di non farci nulla. E così speravano che sarebbe accaduto anche alle Vele ciò che alla fine, erano sicuri, sarebbe accaduto a quei 350 metri distesi lungo via Foria, un senso e una funzione. Gli storici cercavano di applicare ai quei quattro edifici lunghi centro metri le categorie tradizionali dell' unicum monumentale ma, nonostante i convegni, rimasero minoranza. Il rischio "cartolina" alla fine fu evitato, si comprese la differenza tra un' immagine e una cosa: "Ceci n' est pas une pipe" aveva segnalato Magritte molti anni prima. Le indecisioni riconsegnarono le scadenze al tempo che, con la sua solita lentezza, diede delle risposte: tre edifici debilitati si sgretolarono man mano e uno solo riuscì a sopravvivere. Mossi a pietà i napoletani lo curarono e non ne permisero la scomparsa, ma nulla si seppe intorno alla sua destinazione né panni furono mai esposti alle finestre. Fu un vero atto d' amore e di carità senza chiedere niente in cambio. Dicevano che una fondazione onlus ne aveva sostenuti gli altissimi costi, ne era diventata proprietaria e la stava trasformando, ma a Scampia i lavori dei volontari andavano a rilento. Bisogna riconoscere che qualche volta accade l' impensabile e proprio là dove meno te lo aspetteresti. Le scolaresche continuarono ad andare in primavera a vedere quel gigante solo, sopravvissuto a se stesso; emanava un' aria triste, non era fatto per il nuovo allestimento che gli stavano cucendo addosso nell' estate del 2016.

SERGIO STENTI

domenica 19 agosto 2012

La mancanza sospetta dei concorsi pubblici


DOVREBBE essere una manna per la città e i suoi architetti, soprattutto in un periodo di crisi come questo, avere in programma e finanziate tutte insieme così tante opere pubbliche o a sostegno pubblico come abbiamo oggi a Napoli: restauro centro storico, Mostra d' Oltremare, stadio, metro e stazioni, Bagnoli e altro ancora. Eppure a fronte di tante opere pubbliche non c' è nessun concorso pubblico indetto, come rilevava ieri su queste pagine Pasquale Belfiore. Si procede come se si trattasse d' interventi privati: niente dibattito, niente partecipazione, niente responsabilità pubblica. Tutto rimane dentro le stanze delle istituzioni; al più si fanno annunci pubblicitari dei quali poco o nulla si riesce a comprendere circa la qualità delle scelte e le procedure per realizzarle. L a pratica dei concorsi per opere pubbliche che da un secolo costituisce un formidabile trait d' union tra istituzioni e cittadini, si è purtroppo prosciugata, interrompendo quella salutare diffusione novecentesca che vedeva la realizzazione dei beni pubblici attraverso il confronto delle proposte in competizione. Invece sembra oggi di assistere a un ritorno alle modalità dell' Ottocento quando il Comune trattava con i privati, e i privati proponevano al Comune, la realizzazione di pezzi di città o di edifici particolarmente importanti. Con la collaborazione di valenti ingegneri-architetti, le proposte private diventavano contratti approvati nel chiuso delle stanze comunali e, mentre risolvevano una cronica inefficienza comunale, si appropriavano anche della trasformazione della città con una pratica liberista oltre misura. A carico del liberismo ottocentesco va addebitato lo sviluppo asfittico della città, la mancanza di parchi e d' infrastrutture ma anche una qualità urbana dignitosa come quella realizzata tra l' altro al Rettifilo o al quartiere Santa Brigida. Ma vanno anche ricordati alcuni incidenti come l' urbanizzazione del Vomero, i cui danni ai cittadini ricordano i danni oggi subiti dagli abitanti dell' interrotto quartiere di Santa Giulia, disegnato da Norman Foster, a Milano. La prassi dell' accordo diretto tra impresee Comune si restringe nel Novecento proprio a favore del concorso pubblico, sia per opere importanti sia per i quartieri attivando ampi dibattiti stilistici che diventeranno una palestra di formazione per i giovani architetti italiani di quel periodo. È a questo punto che la figura del progettista, architetto o ingegnere, si libera dell' ipoteca delle imprese e s' impone all' attenzione della città con proposte e progetti tecnicamente e culturalmente aggiornati. Così sono nati i nostri più importanti edifici della città moderna: le Poste, le Finanze, la stazione marittima, la stazione ferroviaria, lo stadio San Paolo, il 2° Policlinico insieme a quartieri come La Loggetta o Secondigliano II settennio. Quasi del tutto accantonata la pratica dei concorsi (esistono eccezioni fortunate), le opere pubbliche vengono oggi costruite o attraverso incarichi diretti o attraverso gare tra imprese con progetti base redatti per lo più da uffici tecnici interni alle istituzioni che non brillano certo per qualità, competenza e aggiornamento. Una distorsione del sistema innescato dalle leggi Merloni impedisce poi di migliorare quelle mediocri proposte comunali riducendo le garea miglioramenti sui materiali e sull' energia. Il centro della premialità diventa ora la dimensione economica piuttosto che quell' architettonica ed estetica. La preferenza data alle gare d' appalto piuttosto che ai concorsi di architettura risponde anche a un' esigenza politica delle amministrazioni: incapacità di scelte di lungo periodo, impellenza data dalle scadenze dei finanziamenti, desiderio di avere mano libera nel cambiare i progetti in corso d' opera piuttosto che avere un progetto dato e fissato vincitore di concorso. Eppure, anche in quei pochi casi di concorsi pubblici espletati, le istituzioni non sono solerti nell' assumersi la responsabilità della trasparenza delle scelte in relazione all' abbandono o ai cambiamenti che i progetti subiscono. Per esempio non è noto perchéa Napoli il progetto per il porto di Euvè è stato abbandonato, perché è stato variato il progetto di Cellini per Bagnoli, perché è stato messo in archivio il progetto per il rione De Gasperi a Ponticelli. Non solo quindi serve più trasparenza tra amministrazione e cittadini nella trasformazione della città, ma nel caso dello spazio pubblico tale trasparenza e partecipazione è indispensabile. Non si può porre mano allo spazio storico della città senza fare concorsi e senza dibattito pubblico. Dare incarichi diretti, approvare progetti pubblici come se fossero privati, non è una pratica che stringe il rapporto tra città e cittadini. Crea sospetto e irresponsabilità e un senso di città privata che non è ciò che si vuole. Mi riferisco alle piazze invase (o abbellite secondo alcuni) dalle stazioni della Metropolitana, alle piazze che lo saranno tra poco (piazza Santa Maria degli Angeli e piazza Nicola Amore), al restauro e ri-uso di importanti monumenti nel centro storico, al restauro e riuso di edifici della Mostra d' Oltremare. Si fa un gran parlare dei beni comuni, di acqua, mare, montagne e paesaggi, come di beni fondativi della società che li usa e li vive, ma anche i beni pubblici, come abbiamo visto, sono fondanti la storia di una comunità e ogni loro trasformazione va attivata e condivisa.
Repubblica NA 25.7.2012