venerdì 21 dicembre 2012

Dite a Fuxsas che la grandeur è finita



IN QUESTI giorni è stato presentato con molta enfasi il progetto della stazione di piazza Nicola Amore di Fuksas. Dall' intervista di Tiziana Cozzi, pubblicata su questo giornale giovedì scorso, emerge l' obiettivo di riqualificare la piazza nell' ottica della pedonalizzazione anche del Rettifilo e l' intenzione di fare una stazione-museo coperta da una calotta di vetro mettendo in mostra i reperti del tempio dorico ritrovato. La prosecuzione dei lavori per la metropolitana è una necessità fisica di questa città troppo congestionata, che ha quasi perso la misura umana del suo centro storico; ma non altrettanto necessario appare ampliare le stazioni e occupare prezioso suolo pubblico come propone il nuovo progetto Fuksasa differenza di quello preliminare dove egli proponeva una stazione ipogea con alcuni lucernari. Detto in altri termini e con meno humour dell' archistar romana, il nuovo progetto vuole liberare la piazza dalle autoe occuparla con un edificio di vetro, una copertura global, buona per molte occasioni, posta quasi al centro di essa e dentro la quale mettere in mostra i reperti archeologici che i pedoni potranno vedere anche dall' esterno. S S i assiste qui a un ampliamento di una tendenza del progetto contemporaneo che non riesce a stare dentro al tema, in questo caso il sottosuolo, ma che vuole emergere come protagonista della scena urbana. Anche a piazzetta Santa Maria degli Angeli succede la stessa cosa con la conseguente futura scomparsa della piazzetta. Analogamente anche nella stazione di piazza Garibaldi l' immenso pergolato, vera foresta di tubi di acciaio, copre una nuova ulteriore galleria commerciale che toglie metà piazza al giardino pubblico pur previsto. Diverso è invece il modo di progettare la stazione Municipio, per esempio, dove Siza, anche in presenza di importanti reperti archeologici, non per questo invade la piazza. Nella stessa tendenza di rispetto della città si situa anche la bella stazione Università e la rinnovata piazza Borsa riqualificata con un sobrio ed elegante intervento. E devo annoverare tra queste anche la stazione di Salvator Rosa, prototipo delle stazioni di Napoli, dove l' esuberanza invasiva del progetto è giustificata dal disordinato e confuso spazio urbano esistente. In questo contrasto di tendenze l' invasione dello spazio pubblico sembra per la verità cosa antitetica alla sua liberazione e non in linea con le altre proclamate liberazioni fatte da quest' amministrazione. C' è una recente deriva che sta minacciando le città storiche italiane, da Venezia, a Torino, a Roma, grandi firme propongono progetti che alterano notevolmente quell' equilibrio stratificato che esse hanno raggiunto attraverso molto tempo. Per esempio i due grattacieli a Torino (Banca Intesa e Regione), l' Ara Pacis a Roma, il ponte in vetro sul Canal Grande a Venezia. Andrebbero presi molto sul serio gli allarmi lanciati da Salvatore Settis anche su questo giornale (il 2 ottobre) per la tutela dei centri storici. Partendo dalle analisi delle conseguenze negative per Venezia (estraneità e costosità del ponte in vetro di Calatrava), Settis vede minacciati i centri storici da inopportuni interventi di trasformazione che, attraverso la copertura di grandi firme, rompono la soglia di tolleranza e che, teme Settis, aprono le porte a proposte di più modesti epigoni che non potranno più essere fermate. Non si vuole qui sostenere una questione di stile, resuscitare cioè il dibattito sul rapporto tra antico e nuovo, come se non fosse possibile immettere nel centro storico architetture nello stile "libero" che contraddistingue l' architettura contemporanea; ma, al contrario, proprio perché libero quello stile deve essere sottoposto a una qualche approvazione che non può essere solo burocratica ma democratica, per lo meno quando interessa e trasforma lo spazio pubblico della città. E ciò è tanto più importante quando questo spazio è definito e consolidato storicamente come l' ottocentesca piazza Nicola Amore. Si dirà che pur di avere un' opera di una archistar si può passare sopra l' altezza dell' edificio in vetro in mezzo alla piazza che ostacola la vista prospettica, che i reperti archeologici ritrovati sono una risorsa che è meglio mettere in mostra alla luce del sole piuttosto che tenerli in bui spazi ipogei, si dirà che il vetro è quasi immateriale, leggero e trasparente e che consente di vedere ed essere visti; ma a parte il fatto che una cupola di vetro è quanto di più global si possa pensare, andrei a vedere cosa è diventata la trasparenza del vetro in città, alla stazione Montesanto o a piazza Dante, prima di eleggere il vetro a dimensione immateriale. Non si tratta qui di ridurre l' architettura a pura funzionalità, ma una maggiore attenzione alla pratica del progetto piuttosto che al concept va richiesta e pretesa. Il tempo della grandeur anche per le stazioni è finito. Consentirsi una follia scultorea come la stazione di Soccavo di Kapoor dai costi proibitivi e superiori ai cento milioni di euro è stata una smargiassata che forse potremmo rivendere a qualche sceicco arabo quando si deciderà che cosa fare delle diverse parti scultoree in cui la stazione è divisa e che sono depositate da qualche parte. Credo che una richiesta di maggior realismo vada fatta all' architettura pubblica, prima di tutto come affermazione di un' attenzione etica e culturale in rapporto al contesto storico e poi anche per una valutazione dei costi e dei benefici che è, ahimè, spesso sottaciuta negli appalti pubblici. Sorprende infine che i beni pubblici siano ancora cosi trascurati a Napoli e che non ci siano indizi di un coinvolgimento della gente per scelte che così tanto li riguardano. Stando alle indicazioni che emergono dall' attuale Biennale di Architettura di Venezia, sembra che il lavoro delle archistar sia un po' diminuito di interesse sulla scena internazionale a vantaggio di una architettura civile di maggior realismoe utilità sociale: forse è solo un debole venticello ma spira in altra direzione.
SERGIO STENTI

venerdì 14 settembre 2012

Facciamo delle Vele un reperto archeologico

ROVINE giganti distese mezze morte su terreni vuoti si stagliavano all' orizzonte di Secondigliano. Erano edifici ciclopici che i circa seimila abitanti avevano odiato e avevano abbandonato e poi si erano intestarditi perché non fossero mantenuti in vita: volevano solo che scomparissero tante erano le sofferenze che ricordavano loro quando le avevano abitate scappando dai vicoli del centro storico di Napoli e non solo. N ell' ultima fase di vita quegli edifici diventarono luogo di fabbricazione e distribuzione di droga, covi per nascondere partite al consumo, nascondigli dove scappare e seminare gli inseguitori. Eppure non era facile demolirle, tre vennero giù con difficoltà ma altre quattro rimanevano e nessuno sapeva cosa fare. Troppo ingombranti, troppo calcestruzzo, troppo ferro e poi dove seppellirle? Le discariche erano tutte già colme di rifiuti urbani che si ammassavano nelle larghe vie. Ma il tempo sgretolava il calcestruzzo, le muffe segnavano i muri, l' acqua corrodeva le strutture, e gli intellettuali si interrogavano: ma che cosa farne? Tutti convenivano: non erano edifici da abitare ma erano però incredibilmente impressionanti, di un attraente scenografico, fuori dimensione: mai vista una cosa simile dopo l' Ospizio dei Poveri di Fuga. Perché perderle quindi? Da ecomostro inabitabile divennero un set cinematografico, addirittura un racconto, uno scenario dell' orrido; droga, camorrae letteratura allargarono di molto la loro fama negativa, simbolica e di successo. La lenta rivincita della legalità si accompagnò pari passo con la smobilitazione degli abitanti e le difficili demolizioni; le piazze dello spaccio durarono ancora un po' , poi si esaurirono e si spostarono altrove. Da ruderi di un sogno di modernizzazione divennero un' icona memorabile che colpì l' immaginario, segno di un esperimento estremo d' inabilità, di un' epoca alla ricerca cieca di una città altra di cui non avevano bisogno. Insomma si trasformarono da residenze a immagine dell' estremo, a icona, non certo a monumento. Non c' era nulla da tramandare, ma solo da vedere: una rovina del passato, quasi morta, ma da conservare come segno. Che cosa altro è un' icona se non un' immagine? I giganti distesi piacevano, venivano bene nelle riprese televisive, uno scenario estremo, sotto casa, compresi quegli interni così somiglianti alle carceri piranesiane. Intere scolaresche andavano in gita con i professori a vedere le case dei tossicodipendenti e quelle delle famigliole che si arrangiavano nella confezione delle dosi. Erano dei "droga tour" che spopolavano. Gli architetti avevano voluto sperimentare idee nuove a cavallo del ' 68. Utopie sociali e utopie tecnologiche e lotte per la casa che divennero lo sfondo ideologico e politico, il quadro entro cui alcuni spingevano per applicare nuovi processi industriali alle costruzioni per il popolo: era un malinteso imperativo della modernità. Ressero poco più di quindici anni quegli edifici a tenda, poi furono dismessi. Non era chiaro che cosa si dovesse fare con quei ruderi: seppellirli sottoterra o farci crescere rampicanti. Oppure riusarli per altro scopo ove ce ne fosse uno chiaro, venderli ai privati, farci facoltà universitarie, ospedali, atelier, case per lo studente. Tutte le più disparate idee non trovarono però strade concrete per affermarsi. Il Comune, che non era riuscito a gestire quei transatlantici quando erano in attività, non aveva certo capacità finanziaria e organizzativa per guidarne le trasformazioni e le abbandonò. Le Vele pian piano si degradarono fisicamente, si sbriciolarono, l' acqua le faceva marcire, l' erba cresceva e nessuno poteva avvicinarsi: emanavano un inconfondibile odore di abbandono. Ma non crollarono, erano stranamente costruite in modo solido e infatti stettero lì per molti anni.I vecchi abitanti non riuscivano più a sopportarne la vicinanza e il ricordo ora che erano diventati inquilini normali, ordinari, proprio loro che non lo erano mai stati. Si erano accontentati, infatti, di alloggi banali, disegnati da architetti-burocrati impauriti; però, per loro, tutto era meglio fuorché ritornare ad abitare nei vicoli anche se moderni. La commissione incaricata dal Comune non dette risposte tecniche chiare. Una sola cosa appurò: con i soldi della riqualificazione si potevano fabbricare tutte le case che si volevano. La riqualificazione costava molto più del nuovo. Nessuno sapeva se lo Stato avrebbe investito sul mantenimento di un' icona, data l' aria di crisi che circolava. Qualcuno si azzardava a considerare le Vele come una specie di Ospizio dei Poveri di periferia e sperava che in fondo potessero avere la stessa sorte dell' originale di Fuga: costruito, incompiuto, abbandonato, ma, dopo qualche secolo, curato e tenuto in piedi anche se non restaurato. Speravano costoro che potesse accadere alle Vele una storia simile: le rovine sembravano simili, non si distruggevano. Si sapeva che le pietre della storia alla fine venivano restaurate anche se per fini non detti, anche al prezzo di non farci nulla. E così speravano che sarebbe accaduto anche alle Vele ciò che alla fine, erano sicuri, sarebbe accaduto a quei 350 metri distesi lungo via Foria, un senso e una funzione. Gli storici cercavano di applicare ai quei quattro edifici lunghi centro metri le categorie tradizionali dell' unicum monumentale ma, nonostante i convegni, rimasero minoranza. Il rischio "cartolina" alla fine fu evitato, si comprese la differenza tra un' immagine e una cosa: "Ceci n' est pas une pipe" aveva segnalato Magritte molti anni prima. Le indecisioni riconsegnarono le scadenze al tempo che, con la sua solita lentezza, diede delle risposte: tre edifici debilitati si sgretolarono man mano e uno solo riuscì a sopravvivere. Mossi a pietà i napoletani lo curarono e non ne permisero la scomparsa, ma nulla si seppe intorno alla sua destinazione né panni furono mai esposti alle finestre. Fu un vero atto d' amore e di carità senza chiedere niente in cambio. Dicevano che una fondazione onlus ne aveva sostenuti gli altissimi costi, ne era diventata proprietaria e la stava trasformando, ma a Scampia i lavori dei volontari andavano a rilento. Bisogna riconoscere che qualche volta accade l' impensabile e proprio là dove meno te lo aspetteresti. Le scolaresche continuarono ad andare in primavera a vedere quel gigante solo, sopravvissuto a se stesso; emanava un' aria triste, non era fatto per il nuovo allestimento che gli stavano cucendo addosso nell' estate del 2016.

SERGIO STENTI

domenica 19 agosto 2012

La mancanza sospetta dei concorsi pubblici


DOVREBBE essere una manna per la città e i suoi architetti, soprattutto in un periodo di crisi come questo, avere in programma e finanziate tutte insieme così tante opere pubbliche o a sostegno pubblico come abbiamo oggi a Napoli: restauro centro storico, Mostra d' Oltremare, stadio, metro e stazioni, Bagnoli e altro ancora. Eppure a fronte di tante opere pubbliche non c' è nessun concorso pubblico indetto, come rilevava ieri su queste pagine Pasquale Belfiore. Si procede come se si trattasse d' interventi privati: niente dibattito, niente partecipazione, niente responsabilità pubblica. Tutto rimane dentro le stanze delle istituzioni; al più si fanno annunci pubblicitari dei quali poco o nulla si riesce a comprendere circa la qualità delle scelte e le procedure per realizzarle. L a pratica dei concorsi per opere pubbliche che da un secolo costituisce un formidabile trait d' union tra istituzioni e cittadini, si è purtroppo prosciugata, interrompendo quella salutare diffusione novecentesca che vedeva la realizzazione dei beni pubblici attraverso il confronto delle proposte in competizione. Invece sembra oggi di assistere a un ritorno alle modalità dell' Ottocento quando il Comune trattava con i privati, e i privati proponevano al Comune, la realizzazione di pezzi di città o di edifici particolarmente importanti. Con la collaborazione di valenti ingegneri-architetti, le proposte private diventavano contratti approvati nel chiuso delle stanze comunali e, mentre risolvevano una cronica inefficienza comunale, si appropriavano anche della trasformazione della città con una pratica liberista oltre misura. A carico del liberismo ottocentesco va addebitato lo sviluppo asfittico della città, la mancanza di parchi e d' infrastrutture ma anche una qualità urbana dignitosa come quella realizzata tra l' altro al Rettifilo o al quartiere Santa Brigida. Ma vanno anche ricordati alcuni incidenti come l' urbanizzazione del Vomero, i cui danni ai cittadini ricordano i danni oggi subiti dagli abitanti dell' interrotto quartiere di Santa Giulia, disegnato da Norman Foster, a Milano. La prassi dell' accordo diretto tra impresee Comune si restringe nel Novecento proprio a favore del concorso pubblico, sia per opere importanti sia per i quartieri attivando ampi dibattiti stilistici che diventeranno una palestra di formazione per i giovani architetti italiani di quel periodo. È a questo punto che la figura del progettista, architetto o ingegnere, si libera dell' ipoteca delle imprese e s' impone all' attenzione della città con proposte e progetti tecnicamente e culturalmente aggiornati. Così sono nati i nostri più importanti edifici della città moderna: le Poste, le Finanze, la stazione marittima, la stazione ferroviaria, lo stadio San Paolo, il 2° Policlinico insieme a quartieri come La Loggetta o Secondigliano II settennio. Quasi del tutto accantonata la pratica dei concorsi (esistono eccezioni fortunate), le opere pubbliche vengono oggi costruite o attraverso incarichi diretti o attraverso gare tra imprese con progetti base redatti per lo più da uffici tecnici interni alle istituzioni che non brillano certo per qualità, competenza e aggiornamento. Una distorsione del sistema innescato dalle leggi Merloni impedisce poi di migliorare quelle mediocri proposte comunali riducendo le garea miglioramenti sui materiali e sull' energia. Il centro della premialità diventa ora la dimensione economica piuttosto che quell' architettonica ed estetica. La preferenza data alle gare d' appalto piuttosto che ai concorsi di architettura risponde anche a un' esigenza politica delle amministrazioni: incapacità di scelte di lungo periodo, impellenza data dalle scadenze dei finanziamenti, desiderio di avere mano libera nel cambiare i progetti in corso d' opera piuttosto che avere un progetto dato e fissato vincitore di concorso. Eppure, anche in quei pochi casi di concorsi pubblici espletati, le istituzioni non sono solerti nell' assumersi la responsabilità della trasparenza delle scelte in relazione all' abbandono o ai cambiamenti che i progetti subiscono. Per esempio non è noto perchéa Napoli il progetto per il porto di Euvè è stato abbandonato, perché è stato variato il progetto di Cellini per Bagnoli, perché è stato messo in archivio il progetto per il rione De Gasperi a Ponticelli. Non solo quindi serve più trasparenza tra amministrazione e cittadini nella trasformazione della città, ma nel caso dello spazio pubblico tale trasparenza e partecipazione è indispensabile. Non si può porre mano allo spazio storico della città senza fare concorsi e senza dibattito pubblico. Dare incarichi diretti, approvare progetti pubblici come se fossero privati, non è una pratica che stringe il rapporto tra città e cittadini. Crea sospetto e irresponsabilità e un senso di città privata che non è ciò che si vuole. Mi riferisco alle piazze invase (o abbellite secondo alcuni) dalle stazioni della Metropolitana, alle piazze che lo saranno tra poco (piazza Santa Maria degli Angeli e piazza Nicola Amore), al restauro e ri-uso di importanti monumenti nel centro storico, al restauro e riuso di edifici della Mostra d' Oltremare. Si fa un gran parlare dei beni comuni, di acqua, mare, montagne e paesaggi, come di beni fondativi della società che li usa e li vive, ma anche i beni pubblici, come abbiamo visto, sono fondanti la storia di una comunità e ogni loro trasformazione va attivata e condivisa.
Repubblica NA 25.7.2012

sabato 7 aprile 2012

Bagnoli ... bene comune

Bisogna tener conto delle ultime due novità su Bagnoli se si vuole ragionare su come e quando si realizzerà il grande progetto verde previsto al posto della gigantesca acciaieria dismessa nel 1991.
La prima novità è che, dopo due gare andate deserte, nessuno può illudersi che, mantenendo le attuali condizioni, gli investitori privati siano interessati a Bagnoli; la seconda è che, finalmente, la responsabilità della bonifica  della spiaggia  e del mare non è più sparsa tra Enti statali che non l’hanno fatta, ma  sarà gestita direttamente dal Comune di Napoli  cui dovranno essere trasferiti i finanziamenti.
E’ evidente che alla luce di questi fatti è urgente conoscere le intenzioni dell’amministrazione cittadina su come intende muoversi per programmare il completamento del grande progetto urbanistico. 
Costruire la nuova Bagnoli- Coroglio con soldi pubblici è stato un desiderio irrealizzabile.  Già nel 1993 si prevedeva per i suoli liberati un’occasione di sviluppo urbano per circa 300 ettari, con parchi, spiaggia, ricerca e porto turistico; una specie di risarcimento alla città che la politica s’incaricava di guidare come se fosse una rinascita: niente speculazione, solo un bellissimo luogo dove andare  in vacanza, aria salubre, suolo bonificato, spiaggia e mare puliti.
Questo sogno che la città ha visto liquefarsi anno dopo anno  ha incontrato molte difficoltà  oggettive e soggettive come la diminuzione del flusso di denaro pubblico , il crescente costo e le difficoltà della bonifica dei suoli e della spiaggia, l’assenza dei privati e insieme  un’incertezza sul progetto generale che non sembra ancora del tutto eliminata.
 Aiuti europei considerevoli e finanziamenti pubblici anche ridotti e a singhiozzo non sono bastati a coprire l’aumento dei costi di un progetto cosi vasto per un sito molto inquinato. Un progetto tutto pubblico, simile al PSER del 1980,  ma partorito  negli anni novanta era stato il  frutto di una visione statalista che già allora mostrava  tutti i segni della non sostenibilità. Le stesse scelte urbanistiche approvate con la Variante del 1996 e poi col PRG erano volutamente superficiali sul fabbisogno abitativo e sognavano per la città un’economia terziaria e di ricerca.  Prevedere per Bagnoli, ma anche per tutta la periferia, di costruire poco e quel poco soprattutto con uffici poteva andar bene forse per Milano ma non per Napoli. Ma tantè,  quelle norme di PRG sono ancora valide  anche se sono state di poco variate nel 2009 dalla giunta Iervolino per la sola Bagnoli,  per cercare inutilmente di attrarre  investitori privati.
I ritardi della bonifica dei suoli sono stati decisivi nel posporre ogni altro intervento sull’area e soprattutto la spiaggia e il mare inquinati si sono rivelati temi di bonifica più difficili del previsto compresa quella rimozione della colmata che, decisa per legge, non ha trovato ancora soluzioni pratiche. Spetterà ora al Comune occuparsi di questo, proponendo soluzioni praticabili e tempi accettabili.  Quello che non è auspicabile è rimanere nell’incertezza paralizzante di polemiche sul modo della bonifica, o attardarsi a discutere di posizioni  ideologiche o demagogiche tipo NINBY ( non nei miei terreni) che portano solo all’isolamento dalla comunità nazionale.  
L’accumulo di questi ritardi e la mancanza d’infrastrutture hanno inciso fortemente sull’attendibilità dei tempi della riqualificazione e hanno allontanato gli investimenti privati.
Ma il quadro della Bagnoli del futuro è reso più incerto anche dalla mancanza di un master plan pubblico di come sarà, ad opera completa, tutta l’area.  Purtroppo il progetto Cellini, pur approvato nel 2007, non è diventato un master plan vincolante. Credo che sia un segno d’incertezza politica e arretratezza culturale pensare che si possa realizzare un intervento di riqualificazione di tale dimensione con gli indici di costruzione (come previsto dalla Variante urbanistica del 1996) come se il disegno 3D dello scenario finale della nuova Bagnoli-Coroglio non fosse, esso stesso, parte del suo possibile successo. 
Ogni città europea (l’esempio di Amburgo è molto istruttivo) ha capito che il successo di operazioni di riqualificazione di grandi aree dismesse  poggia su stabilità di decisioni, alta sinergia con i  privati  e  progetti di qualità  dove il pubblico si riserva il compito di costruire un quadro complessivo e le  infrastrutture  necessarie e  guida poi le realizzazioni secondo un disegno a tre dimensioni tanto dettagliato nelle parti pubbliche e nelle volumetrie quanto libero nell’architettura dei privati.
A me pare che il giudizio negativo che si percepisce in città riguardo a Bagnoli Futura, per nulla modificato dal piccolo e attraente auditorium  sia perfettamente motivato da una lunga  e costosa gestione della cosa pubblica che non ha prodotto i  benefici auspicati. Soprattutto i troppi ritardi della bonifica e le previsioni di parchi non sostenibili hanno minato l’attendibilità delle promesse politiche. In particolare i parchi previsti, di un’ampiezza fuori misura (160 ha), pongono domande concrete sulla capacità economica di realizzarli e di gestirli. I precedenti napoletani non incoraggiano di certo: il Comune ha lasciato inselvatichire il parco De Filippo a Ponticelli (10 ha) per carenza di manutenzione  fino ad un punto tale che  esso è oggi inutilizzabile e chiuso. Vorremmo essere smentiti dalle capacità gestionali, di uso e ricerca di risorse pubbliche che la nuova amministrazione afferma in continuazione di possedere; applicarle a Bagnoli e vincere la scommessa ereditata  sarebbe un grande merito.  
(Repubblica Na 7.4.2012)

giovedì 1 marzo 2012

Ospedale del mare uno scandalo voluto

Le recenti scandalose vicende negli appalti pubblici ripropongono l’annosa  questione che si sperava superata dopo tangentopoli:  come è possibile che non ci sia stato rimedio alle cause di  inefficienza e malaffare che gravano ancora  per molta parte sulle opere pubbliche ?
La risposta più semplice è che non si vuole farlo, non si vuole modernizzare il paese instaurando controlli efficienti e sanzioni, trasparenza e responsabilità. Capire come mai un ospedale pubblico da 200 milioni di euro appaltato nel 2004 con l’impegno a consegnare l’opera in quattro anni, si trovi, dopo otto anni  incompleto e con costi più che raddoppiati non è difficile. È la stessa storia accaduta migliaia di volte in passato: approssimazione e incompetenza,  deroghe e varianti, in una sinergia di sprechi tra pubblico e privato che allunga i tempi e aumenta i costi. Lo scandalo dell’Ospedale del mare a Ponticelli non è certo l’ultimo della catena, anche il recente Auditorium di Isernia che dai 5 milioni iniziali arriverà a costarne  55  non è meno scandaloso .  Questi scandali, com’è ovvio, sollevano moltissimi interrogativi sulle collusioni e le inefficienze, vorrei però ragionare brevemente su tre aspetti che mi sembrano decisivi: la scelta, la gestione e la realizzazione delle opere pubbliche .
La scelta. E’ evidente che spetta alla politica scegliere tra le tante opzioni sul tavolo quelle che si ritengono più strategiche o urgenti per l’interesse collettivo e spetta anche alla politica assumersene la responsabilità se questo fine non è raggiunto. Purtroppo quest’ultimo corollario non funziona da noi.
All’indomani di Tangentopoli fu emanata la legge Merloni che aveva alcuni meriti: evitare le varianti e ridurre le deroghe, separare progettista e costruttore,
 mettere al centro la  unitarietà del  progetto e la responsabilità del progettista  ( selezionato purtroppo  in base al fatturato e non al merito).
Il governo Berlusconi ha via via smantellato quel piccolo rigore iniziale consentendo deroghe, varianti al progetto esecutivo, ampia trattativa privata, offerte anomale, e svilendo il ruolo del progettista a vantaggio delle Imprese. Si sono cosi venute a sommare, anche a causa della normativa europea, troppe norme e leggi che hanno ampliato e non diminuito i poteri arbitrari delle stazioni appaltanti, consentendo addirittura la rinegoziazione successiva dell’appalto, vero cavallo di troia dei lavori pubblici.
Si racconta che tra gli ambiziosi interventi sulla città dell’ultimo sindaco di Parma, la costruzione di un edificio/ponte sul torrente la Parma abbia fatto esclamare, a uno sbigottito funzionario di Bruxelles: molto bello il progetto, peccato che manca il fiume! Il sindaco si è dimesso ma i parmigiani dovranno ripianare i conti in rosso delle tante follie del sindaco.
Tornando in  casa nostra non appare certo una scelta per l’interesse pubblico quella di costruire a Bagnoli, al di sotto di un auditorium una mega SPA con saune e piscine e farla gestire ai privati con un canone che, certo,  non ripaga l’investimento milionario. Chissà poi perché il Comune si fa concorrenza da solo possedendo,   nelle immediate vicinanze della nuova SPA, le storiche e belle terme di Agnano da poco rinnovate.
Non sarebbe stato meglio se quei soldi fossero stati spesi per realizzare  quel  parco tanto atteso dai cittadini e  la società Bagnoli Futura,  vendendo i suoli  valorizzati che possiede,  avesse anticipato i tempi realizzativi delle opere pubbliche per cui è nata? Sono domande  legittime credo, che ragionano su scelte che sembrano avere poco che fare con l’interesse pubblico. Sorprende inoltre anche la poca sensibilità a questi temi di quei movimenti di partecipazione democratica che si mobilitano giustamente per la non privatizzazione dei beni comuni  ma che sono poi come rassegnati al malfunzionamento dei beni pubblici.
La gestione. Sta prevalendo uno svilimento dei beni pubblici a vantaggio di una commercializzazione mai avvenuta in passato che crea situazioni paradossali .
Ci sono casi di edifici pubblici venduti a privati e riaffittati allo Stato a canoni elevati, oppure casi di opere pubbliche costruite con soldi pubblici  affittati  a privati a basso canone. La recente pratica della commercializzazione dei beni pubblici, dovuta alle “cartolarizzazioni tremontiane “, è  molto invasiva e ha cercato di allargarsi anche ai beni comuni (acqua, coste, reti, ecc) alimentata da una politica ventennale  di  delegittimazione e negatività  verso   tutto ciò che è pubblico o che  rappresenta  lo stato.
La realizzazione.  Due i sistemi più usati per opere importanti  : il project financing e l’appalto integrato.
 Il PF, chiamando ad investire nell’opera pubblica anche soldi  privati sembrava lo strumento più idoneo a rendere efficiente l’appalto;  esso infatti richiede una negoziazione tra pubblico e privato  ed esclude l’aggiudicazione con offerta al massimo ribasso. Nonostante questi vantaggi, il rapporto tra costi e benefici di questo sistema non è omogeneo in Italia;  esso dipende molto, infatti, dalla forza e dalla serietà delle amministrazioni pubbliche appaltanti perché altrimenti è facile che la negoziazione degeneri in collusione come dimostrano gli scandali dell’area di Castello a Firenze e la vicenda dell’Ospedale del mare.
L’appalto integrato invece prevede la dannosa norma dell’offerta al massimo ribasso. Quando le imprese vincono appalti con ribassi fuori mercato e parcelle professionali irrisorie, decisi da commissari di gara che spessissimo non sono qualificati, è chiaro a tutti che nel corso del cantiere succederanno cose tali che si allungheranno i tempi, aumenteranno i costi , sarà ridotta la qualità del progetto e della costruzione. Giova agli sprechi e al malaffare la mancanza sia di una seria vigilanza sugli appalti sia di un valido sistema di accreditamento delle Imprese. Gli organi esistenti esercitano per lo più un controllo formale e non sostanziale e, soprattutto, manca una banca dati nazionale che raccolga e compari elementi decisivi come contratti, costi, tempi e qualità dei risultati. Una siffatta banca dati che monitorizzi i cantieri e che fosse in rete consentirebbe grandi miglioramenti degli appalti pubblici e accrediterebbe le Imprese con utili “pagelle”; un po’ come fanno le agenzie di rating con le banche stabilendo  per ciascuna  il premio di rischio.  
In un periodo di riduzione dei consumi e dei redditi anche il solo sprecare fondi pubblici negli appalti è oggi di una gravità insopportabile che richiede interventi correttivi urgenti, da parte governativa, delle norme degli appalti pubblici.  
(Repubblica Na , 29.2.2012) 

martedì 31 gennaio 2012

Si realizzano 7000 alloggi in Campania

Non essendo più possibile prevedere un’edilizia pubblica per mancanza storica di finanziamenti governativi (a meno di benvenute sorprese politiche) ci dobbiamo rassegnare a pensare che il futuro degli alloggi sociali italiani sarà tutto nelle mani dei privati. Abbandonato anche ogni proposito significativo di riqualificare i quartieri di edilizia pubblica,  la costruzione di  nuovi alloggi privati sociali sarà  l’unica  prospettiva possibile  per  dare un tetto a fasce di basso reddito, giovani coppie, anziani , sfrattati e single. 
Mentre quindi il patrimonio pubblico sarà via via dismesso o rottamato, la nuova edilizia sociale privata dovrà garantire un’equa redditività, molto diversa da quella popolare (si parla del 3% al netto dell’inflazione). Ciò significa che gli alloggi sociali avranno un affitto più basso del 30% di quelli liberi, ma significativamente più alto di quelli popolari. Da 100 euro/mese si passerà a 400 euro/ mese per un alloggio medio.
E’ questo lo scenario che emerge analizzando le prospettive delle politiche nazionali del Piano Casa, dei Fondi investimenti per l’abitare (FIA) e dalle politiche delle Aziende Casa (ex Iacp), in parte discusse anche in un recente convegno della Federcasa (associazione degli Iacp nazionali) e dello Iacp napoletano.
In questo quadro nazionale ci sono però alcune differenze regionali significative che vanno marcate . La prima è che i fondi  immobiliari sono già all’opera con cantieri aperti in molte realtà del Nord mentre non sono ancora operativi al Sud (Acen e Fondazione Banco Napoli ci stanno provando).
La seconda è che mentre sul piano nazionale il Piano Casa è stato una totale delusione attivando pochissimi capitali privati, al sud e in particolare in Campania si è registrato un picco incredibile d’interesse che ha mobilitato proposte private pari al 60% dell’intera offerta nazionale (1,5 mld contro 2,5 mld totali).
Non conoscendo i dettagli, il cosa e il come , delle proposte campane non possiamo avanzare spiegazioni  su questo fenomeno in controtendenza nazionale,  la cui validazione è affidata alla Regione. Vorremmo però fare qualche utile riflessione.
La fame di case in Campania ha raggiunto cifre a cinque zeri e non esiste nelle città e massimamente a Napoli, un’offerta di affitto a prezzi ragionevoli. A Napoli la casa di proprietà è posseduta da appena il 50% della popolazione contro una media nazionale del 70% e, per quanto si conosce, non  sono  stati aperti nuovi cantieri per alloggi sociali né da parte del Comune né da parte dello IACP napoletano. Quelle tre o quattro centinaia di alloggi attualmente  in costruzione  sono il prodotto di   vecchi finanziamenti  e accordi , il resto sono per ora annunci.
Finanziamenti nuovi, infatti, non sono stati attivati nonostante la dismissione del patrimonio di edilizia pubblica che sta portando decine di milioni nelle casse dello IACP e anche in quelle Comunali. Ma tali nuovi soldi non sono ancora  diventati investimenti  in nuova edilizia o in acquisto di terreni,  come invece sarebbe altamente auspicabile fare.
La prospettiva del Piano Casa in Campania, ammesso che le offerte private prodotte si tramutino tutte in edilizia, è quella di realizzare 7000 nuovi alloggi, di cui 1750 nella sola Napoli (di cui 800 alloggi sociali e 900 in vendita a libero mercato o mercato convenzionato). 
L’attrazione dei capitali privati si è basata su una deregulation allettante che consente  aumenti di cubature dal 20 al 35 %,  cambio di destinazioni d’uso,  possibilità di intervenire nei centri storici, abbattimento e ricostruzione di edifici pubblici in aree degradate con aumenti del 50%, configurando  un intervento complessivo in grado di  sconvolgere  la  pianificazione comunale. Tale deregulation sembra animata più da una voglia  quantitativa che qualitativa, da una cultura dell’emergenza  che  ricorda quella praticata a Napoli nel dopoguerra “rimuovere ogni regola urbanistica ed edilizia per consentire di costruire comunque e dovunque”.
Molta attenzione è richiesta  dalle norme del Piano casa ai progetti presentati  per gli aspetti energetico-ambientali come è giusto fare ma pochissima attenzione viene richiesta per la qualità architettonica ed urbana, la vivibilità, gli spazi di relazione, il rispetto del contesto e del paesaggio, il verde.  Ciò è tanto più importante per quelle proposte di riqualificazione urbana di aree degradate, dove viene concesso  un aumento di cubatura del 50%  senza distinzione per le diverse parti di città dove sono collocate e senza precisare come l’aumento di cubatura deve essere conseguito: in altezza oppure occupando suolo libero.
Niente da obiettare sul tipo d’intervento “demolizione e densificazione”in aree periferiche, a patto che non venga consumato nuovo suolo urbano e reggano le  infrastrutture al contorno.  Ma non si può dire la stessa cosa per gli interventi nelle parti di città consolidata dove l’alterazione negativa del contesto, per aumenti di cubatura cosi elevati,  è assai probabile.
Tra le proposte di riqualificazione di quartieri pubblici degradati avanzate dallo Iacp napoletano per il Piano Casa, ce ne sono alcune, poste in aree di città consolidata, che destano forti perplessità circa le conseguenze sugli intorni edilizi e paesaggistici esistenti, come a Largo Volpicelli, nel rione Amendola o al S.Francesco. Sorprende il silenzio sul Piano Casa da parte del Comune e il suo scontato e insufficiente richiamo al rispetto delle norme del PRG.
C’è in verità  bisogno di una larga partecipazione e sinergia tra istituzioni e cittadini per discutere  temi da troppo tempo lasciati peggiorare. Servono prospettive sui modi di affrontare il drammatico bisogno di case che al sud, incredibilmente, sembra superare in urgenza anche quello del bisogno di lavoro.
Repubblica , Napoli,   31.1.2012