martedì 20 dicembre 2011

Architettura cenerentola della nuova università

Approvati i nuovi statuti che regolano le trasformazioni delle università italiane secondo la legge Gelmini, si completerà nel corso del 2012 il processo di riorganizzazione delle università riformate.
Eliminate le facoltà e assegnati compiti didattici e di ricerca ai Dipartimenti, le Università si stanno riorganizzando secondo libere scelte dei docenti che si raggruppano per affinità culturali e scientifiche in Scuole che ripropongono, con poca variazione, le stesse facoltà eliminate.
Alcuni atenei hanno scelto di facilitare le nuove aggregazioni in Dipartimenti e Scuole/Facoltà (come Bari, Roma, Milano, Genova, Palermo  etc.),   altre  invece, ed è il caso della Federico II, hanno posto maggiori  limiti  e vincoli, guidando con maggiore decisionismo il modo della riorganizzazione.
Confermata purtroppo la riduzione dei fondi pubblici sia per la didattica e sia soprattutto per la ricerca, il numero dei docenti continuerà progressivamente a ridursi a causa del blocco del turn over determinando cosi un’inevitabile riduzione degli studenti iscritti.
La riforma, com’è noto, tende a riorganizzare le strutture dell’università cercando razionalizzazione ed efficienza e diminuendo i costi, senza però prevedere incentivi o premialità per il miglioramento della formazione. 
Forti ricadute positive si potrebbero avere dalla riunificazione di didattica e ricerca dentro i Dipartimenti, prima interessati solo alla ricerca; ma fare buona ricerca non significa fare buona didattica per cui non si capisce perché si voglia premiare solo chi fa buone ricerche e non anche chi fa buona didattica. Sembra un’antica sottovalutazione quella della didattica rispetto alla ricerca che trascura proprio la trasmissione del sapere, la formazione dei laureati, mettendo fuori centro l’apprendimento e, non a caso, ignorando poi le questioni decisive del post laurea come l’inserimento dei laureati nel mondo del lavoro.
Dopo la sbornia di questi ultimi vent’anni nei quali sono stati creati tanti corsi inutili e laureato molti,  una stagione di maggior rigore può senz’altro migliorare l’università a patto che quegli stessi “baroni” che hanno prodotto la situazione attuale e ai quali la Gelmini affida il cambiamento,  siano virtuosamente spinti a migliorare la qualità  attuale.  
A Napoli, lo statuto approvato dalla Federico II  appare in alcune parti,  in rapporto  agli altri atenei italiani,  in  chiara controtendenza, con regole più restrittive e dirigistiche   della stessa legge  Gelmini. Moltissimi atenei si sono organizzati costituendo tante Scuole quante erano le facoltà operanti (Milano, Trento, Roma, Genova, Bari, etc.), consentendo cosi un passaggio leggero all’università riformata: meno dipartimenti ma distribuiti in molte scuole/facoltà intese come raccordo didattico e gestione dei corsi di laurea.
Alla Federico II invece sono state  create solo quattro  Super Scuole, ( Scienze umane e sociali, Scienze e Tecnologia per la vita, Medicina e Chirurgia, Politecnico e Scienze di base)  forzando 13 facoltà a convergere in sole quattro strutture dove  rimarrano “intruppati”  contenuti disciplinari  e orizzonti culturali molto differenti e gelosi per antica tradizione. 
Ad Architettura per esempio, converrebbe forse un nobile e coraggioso isolamento (Architettura alla SUN sembra avviata su questa strada) piuttosto che un abbraccio soffocante nella Super scuola, quasi Politecnica, che unisce tutte le ingegnerie (da biomedica ad aerospaziale ed elettronica, solo per citarne alcune) alle quali vanno aggiunte matematica e fisica. Trovare reciproco vantaggio culturale e scientifico in questa grande struttura che gestirà oltre 20 corsi di laurea, non appare certo chiaro né forse possibile,  in particolare per una disciplina come architettura che si alimenta col sociale e trae tensione dall’intreccio tra arte e tecnica. Se l’abbraccio ci sarà, la facoltà di Architettura, cenerentola nella nuova Super scuola, si trasformerà perdendo vecchi caratteri distintivi e aquistandone di nuovi (soprattutto un’egemonia del sapere tecnico-scientifico) e questo la allontanerà dal processo che vede impegnate, per i prossimi anni, la maggior parte delle scuole di architettura italiane.
E’ noto che la laurea, specie nelle facoltà professionalizzanti, si è via via ridotta come amplificatore delle possibilità occupazionali delle persone, e tuttavia va sottolineato come il miglioramento della governance non migliora  i nodi della validità  attuale della formazione,  dei contenuti e dei metodi di insegnamento in relazione a ciò che richiede il mercato.
Dopo l’illusione, prodottasi vent’anni fa, con la riforma del 3+2 che riteneva di formare in meno tempo più laureati e migliori,  aumentando l’occupazione con  la nuova figura del  laureato triennale, si è assistito invece e soprattutto ad un aumento significativo di laureati che, in Architettura, ha toccato  la cifra record  di 140.000 unità. Tale notevole nuova massa di laureati, non sufficientemente preparata e aggiornata dall’Università, è diventata, con la tolleranza e la complicità degli Ordini professionali, una massa di professionisti che ha  trasformato l’Italia nel paese europeo col più alto numero di architetti per abitante (23 ogni 10.000 abitanti contro una media europea di 8). E’ come se avessimo messo sul mercato per vent’anni, tredici nuovi architetti al giorno,  a cui vanno aggiunti i  numeri delle altre figure che operano nello stesso campo:  geometri, ingegneri edili , civili e ingegneri-architetti.
Diceva Giò Ponti negli anni cinquanta: amare l’architettura è amare il proprio paese. Sembrava una cosa scontata per noi italiani, ma non era cosi: mentre  siamo  diventati il paese col più alto numero di architetti  in Europa,  la domanda sociale di qualità architettonica non è aumentata e il nostro  prezioso paesaggio nazionale è peggiorato. Un paradosso quasi inspiegabile.
( Repubblica Napoli, 20.12.2011)

Una politica urbana tutta in 25 nuovi alloggi

I tempi lunghissimi della riqualificazione a Napoli sono diventati talmente lunghi che si sono quasi persi nel tempo. Sembra un gioco di parole ma è la semplice verità.
Chi si ricorda più dei Programmi di Riqualificazione Urbana che nel 1997  promettevano un miglioramento  significativo delle condizioni delle periferie  napoletane quale mai era avvenuto dopo il terremoto del 1980 ?
Ponticelli, Soccavo, Poggioreale erano i fiori all’occhiello di una pianificazione napoletana, inserita nel PRG, che guardava alla città pubblica come ad una risorsa che meritava di essere riqualificata: i quartieri del Novecento infatti erano e sono in tutta Europa un grande sfida alla innovazione e contemporaneamente alla conservazione di quegli interventi di qualità, razionalisti, organici,  funzionalisti e  anche megastrutturali, che lo hanno caratterizzato.
Su quest’argomento, in un recentissimo convegno (“Riqualificare i quartieri del Novecento”, Palazzo Reale, a cura di Paola Ascione, docente della Facoltà di Architettura) si sono visti interventi di riqualificazione residenziale su edifici degli anni sessanta e settanta che hanno quasi dell’incredibile. Esempi svizzeri di un’accuratezza esecutiva frutto di una sapienza dei progettisti fuori dall’ordinario e , incredibile, un concreto  esempio italiano veramente inaspettato in questo paese  che ha smarrito il bene pubblico:  la riqualificazione, con abitanti in loco, delle “Navi” a Firenze ,  edifici assai simili alle nostre Vele, che sarebbe  utilissimo  portare a conoscenza  della città e della nostra Amministrazione.
Purtroppo noi non abbiamo esempi concreti da mostrare e da paragonare: le passate due amministrazioni comunali (Bassolino e Iervolino) non hanno prodotto risultati concreti in questo senso e, fino ad oggi, anche l’attuale Amministrazione non ha mostrato interesse fattivo alla riqualificazione delle periferie.
Non si sta dicendo che non si è fatto nulla a Napoli, finanziamenti, progetti, aggiornamenti, variazioni, concorsi, valutazioni, hanno occupato quasi vent’anni di attività che però non ha prodotto risultati per la gente.  Ed è evidente che qualcosa è andato storto e dovrebbe essere ricalibrato: forse i programmi non erano operativi, la capacità di gestione comunale non sufficiente, i finanziamenti colpevolmente dispersi in molti rivoli, il PRG non adeguato.  Qualunque sia la spiegazione dei mancati risultati, la nuova Amministrazione deve mostrare di saper gestire questo carico.  Se  vuole “attuare il PRG”, come essa sembra  sostenere, deve trovare  rapidamente il “come” superare gli intoppi ventennali e procedere alle riqualificazioni programmate che non chiedono nuovi investimenti.
Ma oltre al Comune  anche lo IACP si occupa di riqualificare il suo immenso patrimonio. Purtroppo il centenario e meritorio Istituto per le Case Popolari della provincia di Napoli è scomparso in silenzio, cancellato dalla Regione Campania, e attende ristrutturazioni e compiti che hanno, ahimè, il tempo della politica di palazzo. Si tratta anche qui, tanto per ricordare qualche compito, della riqualificazione del quartiere S.Gaetano, da tempo finanziata e progettata  ma che è ancora tutta , dopo un decennio, sulla carta .
Mentre quindi la riqualificazione può attendere una piccola notizia sulle nuove costruzioni ci fa ben sperare. Il Comune ha prorogato per la seconda volta il bando per la vendita dei suoli a Bagnoli (una prima volta perchè nessuno fu interessato, ora perché  spera in maggiori guadagni dovuti alla pubblicità indotta dalle regate), ed ha inserito nel bando, l’obbligo per chi costruirà uffici, commercio e case, di riservare il 5% della quota di case pubbliche  alle giovani coppie.
In una città che perde ogni anno 7000 residenti di cui la maggior parte giovani,  prevedere per il futuro 25 nuovi alloggi pubblici a Bagnoli è cosa certo positiva ma  talmente piccola che  rimane intatta la colpevole politica urbana in atto da tempo:  una decrescita della città senza riqualificazione e sviluppo interno.
( Repubblica Napoli , 19.10.2011)

Il breve addio alle facoltà di architettura

Le storiche facoltà di Architettura del Mezzogiorno d’Italia, Napoli e Palermo stanno per scomparire.
Nate oltre mezzo secolo fa, nel 1928 quella di Napoli e nel 1944 quella di Palermo, queste facoltà sono destinate ad essere inglobate da Ingegneria se non interverrà un cambiamento nelle decisioni dei rispettivi Atenei .
A prima vista la decisione non è l’effetto di una politica culturale e di formazione universitaria nazionale, ma è il risultato, il “combinato disposto” di due provvedimenti  burocratici che mirano alla riduzione  delle spese della Università pubblica italiana: la legge Gelmini e i nuovi statuti degli Atenei  attualmente in approvazione.
Cosi, senza scelte motivate da ragioni culturali e di prospettiva e senza alcun dibattito pubblico, decisioni amministrative e di risparmio economico  sconvolgono assetti storici sedimentati  che hanno prodotto la figura e il sapere dell’architetto moderno: uno sforzo collettivo nazionale per formare  una figura intellettuale e professionale in grado di rispondere alle richieste di valore architettonico degli edifici, di qualità urbana, di dialogo con le stratificazioni storiche delle nostre città e di attenzione al paesaggio che non  appartiene a nessun altro campo di studi universitari.
Le proteste culturali per simili scelte cominciano a emergere. E’ di pochi giorni fa un accorato appello pubblico di Vittorio Gregotti per un ripensamento virtuoso sulla soppressione della facoltà di architettura di Palermo e spero vivamente che anche da noi  i molti architetti/ docenti spendano il loro carisma per sventare un provvedimento amministrativo  dal sapore anacronistico e anticulturale.
Hanno insegnato nella nostra Facoltà molti importanti architetti di livello nazionale e spesso hanno arricchito la nostra città delle loro opere.  Luigi Piccinato, Marcello Canino, Carlo Cocchia, Giulio De Luca,  Roberto Pane, Nicola Pagliara, Aldo L. Rossi, Uberto Siola, Massimo Pica Ciamarra, solo per citarne alcuni. E  voglio solo notare che la Mostra d’Oltremare non sarebbe esistita con le sue splendide architetture se non ci fosse stata la facoltà di Architettura  con i suoi  giovani docenti cosi come  non avremmo quei quartieri popolari degli anni cinquanta e sessanta che riviste italiane e  straniere di quel periodo tanto hanno ammirato e visitato.
Staccatasi dall’Accademia di Belle Arti nella quale era nata, Architettura si è costituita  come sintesi tra una formazione  storica, artistica e tecnica,  con un percorso  affatto diverso dalle  altre scuole europee in quanto  rifletteva,   fin dalle sue origini,  la specificità  della cultura architettonica ed urbana italiana.
Dopo due decenni di sperimentazioni universitarie anche Architettura ha sommato molti errori: troppi Corsi di Laurea,  difesa ad oltranza della corporazione dei docenti, poca apertura alle innovazioni , troppi laureati ,  ma la unicità della Facoltà ha garantito e garantisce una dialogo ed un confronto critico sul senso e le finalizzazioni del suo operare che è indispensabile al suo avanzamento.
 Bisognosa  di aggiornamenti nei contenuti e nei metodi piuttosto che di “governance”, la sua sopravvivenza è messa in serio pericolo dall’assoggettamento al forte e diverso campo  del sapere tecnico- scientifico degli studi di Ingegneria.
Viviamo tempi di progressive settorializzazioni del sapere, di specializzazioni, di osmosi tra discipline diverse, di globalizzazioni, ma è importante non perdere in specificità storica e in appartenenza alla cultura del luogo che è poi il carattere di sempre della buona architettura.
Noi siamo l’unico paese europeo che  ha consentito  a tutti di costruire, dai geometri ai periti edili,  agli ingegneri chimici, tanto che solo il 5% degli edifici italiani è progettato dagli  architetti .
Ma se questa diversità italiana era accettabile nel periodo della ricostruzione post-bellica ora questa  pratica, cambiata di pochissimo, è  dannosissima perché continua a tenere bassa la qualità delle costruzioni  con figure professionali  formate per altri scopi.
La più grossa scommessa che noi oggi abbiamo in Italia è riqualificare la nostra immane e invivibile  periferia del secondo Novecento. Per questo compito gli architetti sono chiamati a dare un contributo civile formidabile, un contributo che si misura solo sulla qualità delle proposte,  sulla base di una visione umanistica che esprima idealità civili  per un’arte  che è  al servizio della gente.
( Repubblica Napoli,  27.07.2011)

sabato 6 agosto 2011

L’altra metà del Forum delle culture, Napoli 2013

Che l’attenzione  sulle trasformazioni attuali sia tutta concentrata sul Centro storico e sulla scelta su cosa restaurare ed entro quanto tempo  mi pare  giusto data  l’importanza  culturale che esso ha per la nostra città, ma questo interesse non deve far dimenticare un'altra simile questione.  Il Forum  mondiale delle culture 2013 ha infatti due gambe: il Centro storico e la Mostra d’Oltremare, e in questa altra parte di Napoli  i restauri  hanno  uguale urgenza e direi uguale importanza di quelli  nel centro storico.
L’obiettivo dichiarato della politica Comunale e Regionale  è approntare un pacchetto  congruente di opere,  non solo di restauro,  che presentino al meglio la città al Forum 2013, e che nel contempo rappresentino un significativo contributo allo sviluppo economico di Napoli  attraverso la  valorizzazione dei valori urbani  e paesistici che questa città possiede.  Il troppo tempo trascorso fino ad oggi mette in seria difficoltà il raggiungimento di tali obiettivi pratici entro una data cosi vicina (mancano 600 giorni al Forum)  rimandando i risultati  a tempi che appare difficile anche contenere entro il 2015 ( scadenza finanziamenti Bruxelles). Nessun esempio  europeo ci è stato di aiuto. Marsiglia, capitale europea della cultura 2013 ha uno stesso processo in corso e,  dopo molte polemiche, i lavori urbani previsti e concentrati sul porto vecchio e sul lungomare sono in fase avanzata.
Da noi la politica  ha  rimandato  decisioni  ma ora  l’urgenza  dovrebbe  far superare rapidamente ogni ostacolo per avviare  un piano di restauri di edifici e ambienti che andrebbe con onestà  valutato per quello che può dare al 2013 e al 2015.   Si tratta comunque di evitare  l’avvio di stralci funzionali di progetti disegnati che di solito,  alle date previste degli stralci,   non hanno quasi mai  realizzato  una funzionalità pubblica dignitosamente utilizzabile  La pratica degli stralci ha reso grave danno al paese  con costruzioni incomplete per svariati anni  che peggiorarono e peggiorano  il contesto e il paesaggio. 
Su questo giornale ( 31.7. 2011)  un articolo di Aldo Aveta ha giustamente  messo l’accento sulla necessità di procedere con cautela e con sapienza nella redazione dei progetti di restauro per perseguire  la qualità come unica condizione di  successo delle iniziative  e delle realizzazioni.  Estenderei questa necessità anche ai restauri alla  Mostra d’Oltremare  sia in corso sia in relazione al suo uso quale sito del Forum.  Una  commissione comunale  istituita dall’assessore Belfiore elaborò  allora  ( marzo 2011) delle indicazioni  operative condivise dalla Regione ma oggi  nulla si sa delle scelte fatte .  
Sulla Mostra valgono  poi le stesse considerazioni che si fanno  per il Centro storico, anzi alla Mostra  va riservata se possibile un’attenzione uguale e diversa perché sono previsti  interventi  non solo  di restauro  ma anche di  riqualificazione e ristrutturazione che, per loro natura,  alterano l’equilibrio  architettonico e ambientale di questo  parco culturale del Novecento che ambisce  giustamente ad essere inserito nei siti Unesco.
Tempo addietro ebbi modo di fare, su questo giornale ( 11.9.010) alcune osservazioni circa i restauri e le ristrutturazioni in corso  alla Mostra, indicando i  rischi di una progettazione e realizzazione che non approfondisce abbastanza  il rapporto tra necessità attuali e  ed edifici originali. Interpretando il restauro del moderno come pratica poco scientifica e poco vincolata  all’originale. Fui rassicurato dal presidente dott. Morra sulle ottime intenzioni circa i restauri in corso con la supervisione della Soprintendenza;  ma oggi con il finanziamento di 40 milioni di euro per il Forum c’è bisogno innanzitutto di sapere  quali programmi sono stati approvati  da Comune e Regione  e quali messi in cantiere nell’area occidentale.  
Per noi il moderno a Napoli non è solo  villa Oro di Cosenza  ma anche la Mostra il cui peso urbano è di gran lunga maggiore.
Anche qui spezzettare interventi sarebbe molto dannoso. Cosa si potrà fare in 600 giorni della Torre delle Nazioni alla Mostra o dell’Ospedale della Pace  sul decumano non  è facile da  predire.  Ci auguriamo presto che si voglia ampliare la partecipazione a questo evento mondiale  rendendo noti i programmi e i progetti che ci riguardano come cittadini. 
(Repubblica Napoli  3.8.2011)

mercoledì 27 luglio 2011

Il breve addio alle Facoltà di Architettura

Le storiche facoltà di Architettura del Mezzogiorno d’Italia, Napoli e Palermo stanno per scomparire.
Nate oltre mezzo secolo fa, nel 1928 quella di Napoli e nel 1944 quella di Palermo, queste facoltà sono destinate ad essere inglobate da Ingegneria se non interverrà un cambiamento nelle decisioni dei rispettivi Atenei .
A prima vista la decisione non è l’effetto di una politica culturale e di formazione universitaria nazionale, ma è il risultato, il “combinato disposto” di due provvedimenti  burocratici che mirano alla riduzione  delle spese della Università pubblica italiana: la legge Gelmini e i nuovi statuti degli Atenei  attualmente in approvazione.
Cosi, senza scelte motivate da ragioni culturali e di prospettiva e senza alcun dibattito pubblico, decisioni amministrative e di risparmio economico  sconvolgono assetti storici sedimentati  che hanno prodotto la figura e il sapere dell’architetto moderno: uno sforzo collettivo nazionale per formare  una figura intellettuale e professionale in grado di rispondere alle richieste di valore architettonico degli edifici, di qualità urbana, di dialogo con le stratificazioni storiche delle nostre città e di attenzione al paesaggio che non  appartiene a nessun altro campo di studi universitari.
Le proteste culturali per simili scelte cominciano a emergere. E’ di pochi giorni fa un accorato appello pubblico di Vittorio Gregotti per un ripensamento virtuoso sulla soppressione della facoltà di architettura di Palermo e spero vivamente che anche da noi  i molti architetti/ docenti spendano il loro carisma per sventare un provvedimento amministrativo  dal sapore anacronistico e anticulturale.
Hanno insegnato nella nostra Facoltà molti importanti architetti di livello nazionale e spesso hanno arricchito la nostra città delle loro opere.  Luigi Piccinato, Marcello Canino, Carlo Cocchia, Giulio De Luca,  Roberto Pane, Nicola Pagliara, Aldo L. Rossi, Uberto Siola, Massimo Pica Ciamarra, solo per citarne alcuni. E  voglio solo notare che la Mostra d’Oltremare non sarebbe esistita con le sue splendide architetture se non ci fosse stata la facoltà di Architettura  con i suoi  giovani docenti cosi come  non avremmo quei quartieri popolari degli anni cinquanta e sessanta che riviste italiane e  straniere di quel periodo tanto hanno ammirato e visitato.
Staccatasi dall’Accademia di Belle Arti nella quale era nata, Architettura si è costituita  come sintesi tra una formazione  storica, artistica e tecnica,  con un percorso  affatto diverso dalle  altre scuole europee in quanto  rifletteva,   fin dalle sue origini,  la specificità  della cultura architettonica ed urbana italiana.
Dopo due decenni di sperimentazioni universitarie anche Architettura ha sommato molti errori: troppi Corsi di Laurea,  difesa ad oltranza della corporazione dei docenti, poca apertura alle innovazioni , troppi laureati ,  ma la unicità della Facoltà ha garantito e garantisce una dialogo ed un confronto critico sulle senso e le finalizzazioni del suo operare che è indispensabile al suo avanzamento.
 Bisognosa  di aggiornamenti nei contenuti e nei metodi piuttosto che di “governance”, la sua sopravvivenza è messa in serio pericolo dall’assoggettamento al forte e diverso campo  del sapere tecnico- scientifico degli studi di Ingegneria.
Viviamo tempi di progressive settorializzazioni del sapere, di specializzazioni, di osmosi tra discipline diverse, di globalizzazioni, ma è importante non perdere in specificità storica e in appartenenza alla cultura del luogo che è poi il carattere di sempre della buona architettura.
Noi siamo l’unico paese europeo che  ha consentito  a tutti di costruire, dai geometri ai periti edili,  agli ingegneri chimici, tanto che solo il 5% degli edifici italiani è progettato dagli  architetti .
Ma se questa diversità italiana era accettabile nel periodo della ricostruzione post-bellica ora questa  pratica, cambiata di pochissimo, è  dannosissima perché continua a tenere bassa la qualità delle costruzioni  con figure professionali  formate per altri scopi.
La più grossa scommessa che noi oggi abbiamo in Italia è riqualificare la nostra immane e invivibile  periferia del secondo Novecento. Per questo compito gli architetti sono chiamati a dare un contributo civile formidabile, un contributo che si misura solo sulla qualità delle proposte, sulla base di una visione umanistica che esprima idealità civili  per un’arte che è al servizio della gente.
(Repubblica Napoli 27.07.2011)

venerdì 17 giugno 2011

Formazione post laurea

Mai come oggi la formazione post- laurea interessa cosi tanti laureandi e laureati; oltre il 50% frequenta tirocini o stage dentro o fuori l’università, mentre vengono sempre più trascurati masters e dottorati: questo in estrema  sintesi il quadro che emerge dall’inchiesta Alma Laurea 2010 di cui parleremo meglio in seguito.
E’ evidente che da un lato il valore reale della laurea si è ridotto notevolmente e poco serve per entrare nel mondo del lavoro, dall’altro, il mercato ha innalzato le sue richieste e chiede specializzazioni e professionalità che la laurea non  riesce ad offrire: insomma una laurea che si dequalifica e un mondo del lavoro poco disposto a  investire in tempo e soldi per la formazione dei suoi dirigenti e tecnici.  
Conferme arrivano da più parti. In una recente intervista giornalistica diversi
 “ cercatori di cervelli” per conto di grandi aziende di livello europeo, raccontavano come esse non ritenessero più come importante il voto di laurea o il regolare corso degli studi ma soprattutto cercassero giovani laureati con  frequenza di stage in azienda e formazione pluri-diretta anche fuori il campo specifico dei loro studi universitari.  Anche il Censis è dello stesso avviso: basta corsi inutili meglio fare praticantato in azienda.

In questo quadro che statistiche e autorevoli opinioni confermano cosi come le frequenti disillusioni pubbliche che molti giovani affidano ai media, va aggiunto che l’università sembra molto più preoccupata di se stessa come struttura che della validità della formazione che offre e della sorte dei  suoi laureati.
L’università appare schiacciata  come non mai da tensioni opposte tese da una parte ad una sua re-interpretazione  quale azienda speciale di ricerca e formazione di eccellenza e dall’altra quale scuola di massa con profili soprattutto didattici. Ridimensionata da significative, anche se non drastiche,  riduzioni di soldi pubblici e di docenti, essa è  intrappolata da logiche rivendicative, da lobbies professorali,  da impermeabilità a valutazioni esterne ad essa intorno  sia  sui metodi di promozione dei suoi dirigenti (lo sono tutti i professori)  sia sui  risultati conseguiti nel mondo del lavoro, delle professioni e della ricerca. Una risposta, già in corso in alcune realtà del nord est, è la creazione di poli universitari con enti pubblici territoriali, aziende e mondo bancario. Una specie di uscita dall’ambito pubblico verso un ambito pubblico-privato teso a superare la riduzione dei finanziamenti, attrarre studenti, mettersi in concorrenza con altre università  in una prospettiva federalistico – territoriale che probabilmente lascerà al palo, nel futuro prossimo, le università “ tutte pubbliche”.
Appare quindi molto sfasato l’attuale dibattito sui modi del rinnovo della docenza e della governance dell’università pubblica che non sarà sufficiente ad arrestare l’attuale degrado del valore della laurea dimostrato dalla crescente richiesta di ulteriore formazione  postlaurea sui cui  l’Università  pubblica poco investe.
Ogni facoltà e ogni Ente fa da se in questo campo post laurea, in un mercato dove mancano politiche e criteri nazionali di verifica della qualità, degli obiettivi proposti e raggiunti e dei costi complessivi.  E’ veramente difficile per un laureato scegliere un master o uno stage, valutarne la sua utilità, capire se gli obiettivi proposti sono frutto di retorica  propagandistica o vicini alla  realtà.
Purtroppo i dati disponibili sulle università italiane (Alma Laurea 2010) non raccontano la qualità dei masters o degli stage o dei dottorati ma solo quella dei tirocini obbligatori. Nemmeno è monitorata la qualità ed i risultati occupazionali dei Corsi di formazione professionale che, notoriamente ben finanziati dalla politica,  sono gestiti dalle Regioni.

Nelle università i tirocini sono organizzati dalle facoltà sia all’interno che all’esterno  di essa con apposite convenzioni che di solito prevedono un monte ore  tra 250 e 400.
Il tirocinio obbligatorio, di tipo formativo e di orientamento, viene riconosciuto con circa 9 crediti, al pari di  un esame importante. La scelta degli studenti è orientata a privilegiare i tirocini esterni in aziende pubbliche, private, Ordini,  evitando  invece quelli interni poco qualificanti perché tenuti dagli stessi docenti che fanno didattica.   Naturalmente ci sono eccezioni e situazioni come le Cliniche e le facoltà con Laboratori conto terzi.
Ad architettura per esempio pochi scelgono i tirocini all’interno delle facoltà, circa il 9%, mentre il 18% sceglie quelli in Enti pubblici e, la maggioranza, circa il 65%, opta per quelli  in aziende private /studi professionali;  quasi nessuno sceglie gli Enti di ricerca  anche perché sono  come mosche bianche.
Sorte infelice sta accadendo ai dottorati di ricerca, formazione d’eccellenza nella ricerca universitaria e  una volta  banco di prova della qualità di una facoltà e dei suoi docenti. La riduzione delle borse di studio, la poca ricerca praticata dai dottorandi “senza borsa” e l’inutilità pratica del titolo al di fuori dell’università  stessa, stante la mancanza di Enti di ricerca sul mercato, li hanno trasformati in  una specie di scuola di formazione magistrale per futuri docenti ed,  in attesa,  in piccolo sostegno  didattico a professori  ormai privi da tempo di  assistenti.
Incredibilmente anche i masters hanno vita difficile, anche se va detto che i dati nazionali non riflettono, anzi oscurano, singole valide esperienze di alta qualità; ma la variabilità e spesso l’evanescenza dei loro contenuti, in mancanza di riscontri nazionali e di un certo valore d’uso, ne hanno fatto perdere di molto l’appeal.
Se si guarda all’offerta formativa appare evidente che sono poco credibili quei masters che propongono formazione in campi dove il territorio di appartenenza della facoltà non eccelle, dove non si riscontrano aziende innovative interessate, o dove la qualità della proposta si regge su figure di spicco ma non di stabile presenza. Ogni facoltà ha la chiara percezione in quali masters potrebbe eccellere anche sul piano di una concorrenza nazionale, ma essa non esercita politica di indirizzo né di coordinamento per lo meno regionale;  il suo compito sembra limitarsi alle lauree ed è già segno di qualità se riesce a mitigare corsi di  laurea strampalati o privi di una struttura  stabile di insegnamento.
Sugli stage mancano dati statistici sulla frequenza e sulla qualità, e questo è già un dato significativo; essi riguardano i laureati  che svolgono attività senza compenso, in aziende convenzionate con l’università per un periodo da tre a sei mesi. Non ci sono inchieste sull’uso effettivo di questi laureati, si dice che lo stage incrementa le possibilità occupazionali di un 6%. Occorrerebbe una certificazione di qualità delle aziende che impiegano gli stagisti, se si vuole che l’apprendistato sia poi spendibile sul mercato.
Circa il 45 % dei laureati architetti si inserisce  in un mondo professionale di  140.000 professionisti: la più alta concentrazione europea di architetti per abitante. Ma  a tale grandissimo numero vanno aggiunti - l’Italia è l’unico paese europeo ad avere cosi tante figure che si occupano di edilizia - gli ingegneri edili, i nuovi ingegneri-architetti,  i geometri. Vanno ancora sommati i nuovi arrivati con le lauree triennali, architetti e ingegneri che, in mancanza di una chiara normativa circa le loro competenze professionali - un colpevole lassismo del Ministero e degli Ordini - esercitano, di fatto, il mestiere privato dell’architetto quinquennale. 
I dati disponibili sulla formazione postlaurea dal 2002 al 2009 (AlmaLaurea 2010) ad Architettura mostrano un notevole trend di crescita dei tirocini e degli stage arrivati ad una percentuale di  tirocinanti   pari al  17%  dei laureati,  di stagisti pari al 21 %, mentre è sorprendente  il trend in continua discesa nella scelta dei dottorati  ( 5% ), dei masters ( 4%) e dei Corsi di formazione professionale ( circa 10%.).

Vale la pena infine fare qualche osservazione sull’Esame di Stato, primo passo che dall’Università porta nel mondo del lavoro e all’iscrizione negli albi professionali.  E’ noto che tutti i laureati lo sostengono quanto prima possibile e vagano da sede in sede per poterlo superare più agevolmente. Ad alcune professioni viene richiesto prima dell’esame, un tirocinio professionale che, nel caso degli avvocati, raggiunge i due anni.
L’esame  di stato è gestito malissimo da Università e Ordini, quasi fosse espressione di un retaggio corporativo reso ancora più difficile (legge 328/2001) con addirittura 4 prove da svolgere.  La cattiva e irresponsabile gestione dell’esame (commissione composta da 5 membri, tre proposti  dagli Ordini e due, compreso il Presidente, proposti dall’Università) che consente l’iscrizione all’Albo professionale  è il prodotto di un totale disinteresse formativo. Nessuna seria preparazione viene fornita su  materie prettamente professionali come legislazione, normative  e  tecnica. In compenso, nonostante le 4 prove previste , e con colpevole cinismo soprattutto in un mestiere come l’architetto che costruisce nel e per il sociale, la grande maggioranza dei laureati lo supera senza aver fatto in sostanza una minima pratica in studio.

I dati statistici forniti da Alma Laurea fotografano una realtà di laureati che si sta orientando diversamente dalle principali proposte di formazione post laurea delle Università pubbliche. Essi cercano formazione specialistica e apprendistato e poco sono attratti dalle offerte standard delle Università, come dottorati e masters. E’ evidente che è necessaria una diversa politica sulla formazione: il pezzo di carta non serve più e il valore legale del titolo di studio si è quasi liquefatto. Considerando poi che le aziende non hanno più voglia di investire, come una volta, tempo e denari per formare manager e tecnici e li vogliono “pronti all’uso”, il necessario completamento della formazione ricade, alla fine, sui singoli laureati.
Il Censis sostiene la necessità di un grande piano nazionale sulla formazione in azienda ma bisognerebbe anche rinnovare i programmi ed i metodi dei corsi universitari e i loro docenti se si vuole una università  pubblica che, avvicinandosi alle aziende,  aumenti la spendibilità dei suoi titoli sul mercato del lavoro. La mancanza di una proposta di qualità, governata e monitorata sulla formazione post laurea ne è forse il più chiaro segno. 
Modifiche di governance e razionalizzazioni interne non bastano all’università pubblica per superare  i limiti della vecchia cultura del monopolio formativo.
La spesso perdente competizione con le università straniere , il tempo lungo di una formazione generica , poco stringente e poco selettiva, la mancanza di aggiornamento dei docenti e dei programmi, il proliferare di corsi inutili e la disattenzione alle richieste del mercato e alla formazione post laurea , sono tutti fattori di grande indebolimento dell’eccellenza dell’ alma mater studiorum italiana.
pubblicato su ATENAPOLI del 10/2010

giovedì 12 maggio 2011

Abbattere le Vele e poi ?


E LE periferie? Non sono nell' agenda dei quattro candidati a sindaco e non compaiono tra le cose importanti e urgenti da fare per Napoli. I temi urgenti secondo Morcone, de Magistris, Lettieri e Pasquino, emersi nell' incontro avuto a "Repubblica", sono: centro storico, rifiuti e termovalorizzatore, Bagnoli; le periferie sono considerate meno urgenti. Solo l' abbattimento delle quattro Vele superstiti è da tutti e quattro considerato indispensabile. Sembra in effetti il de profundis per questi ingombranti relitti o land mark - secondo le opinioni - dell' edilizia pubblica degli anni Settanta. Certo la convergenza di tutti i candidati sull' abbattimento fa riflettere così come, del pari, la mancanza di ogni proposta sul dopo abbattimento. C' è una specie di gara intorno alle Vele: tanto più aumenta l' interesse nazionale per questi giganti edilizi e cresce una riflessione culturale che infoltisce il gruppo dei sostenitori della conservazione e riuso (si è formato un autorevole comitato "Salviamo le Vele" sostenuto dal sovrintendente Stefano Gizzi insieme con altri eccellenti architetti non solo napoletani) tanto si radica il giudizio negativo popolare e soprattutto politico, che non accetta ripensamenti. Da una parte, eliminando le Vele sembra si voglia cancellare un' intera stagione negativa dell' edilizia pubblica, quella degli anni Settanta, da molti ritenuta un prodotto sbagliato della cultura di sinistra italiana. Dall' altra, si sostiene che le Vele, al pari di altri interventi coevi, vanno conservate e recuperate come memoria di una stagione dell' architettura italiana, generosa e immaginifica, che voleva disegnare con quelle "urbatetture", come le chiamò Bruno Zevi, una città diversa.A Roma il sindaco Alemanno ha recentemente proposto la demolizione del quartiere di Tor Bella Monaca facendo proprio un progetto di Leon Krier che propone al suo posto una specie di città giardino grande più del doppio dell' attuale quartiere. Stessi dilemmi sorgono anche per lo Zen di Palermo, il Corviale e il Laurentino a Roma, tutti accomunati dalla stessa ideologia della grande dimensione che è stata una grande scommessa purtroppo persa: sul piano del quartiere infatti questa tendenza macrostrutturale ha prodotto solo peggioramenti di vita. Naturalmente l' attuale concordia demolitoria a Napoli sembra avere più carattere politico propagandistico che operativo, visto che non ci sono finanziamenti per riqualificare i quartieri di periferia che invece andrebbero considerati la più importante questione urbana sul tappeto, insieme alla salvaguardia del paesaggio, di tutto il nostro paese. Ciò che appare importante conoscere è cosa si vuole fare dopo gli abbattimenti o dopo le demolizioni non solo delle Vele ma anche, per esempio, di quartieri come Taverna del Ferro a San Giovanni che sono afflitti da problemi simili. A Roma, per esempio, la proposta di realizzare una città-giardino al posto di Tor Bella Monaca ha fatto sorridere molto pubblico nei diversi convegni indetti: ma come, si sono chiesti in molti, torniamo alla Garbatella e ci giochiamo tutta questa campagna vergine ancora non cementificata? A Napoli invece non ci sono proposte così chiare sul dopo e nemmeno sul prima. Da sedici anni per esempio i pochi progetti di recupero della periferia messi in campo e finanziati non sono stati realizzati a dimostrazione che qualcosa di storto si è verificato sia nelle previsioni di Prg sia nella capacità operativa del Comune. E sarebbe utile se oggi la politica, in procinto di guidare il Comune, s' interrogasse su che cosa è andato storto e proponesse contro misure e cambiamenti. Le Vele hanno attualmente una condizione diversa dagli altri quartieri citati. Esse sono quasi disabitate. I "velisti" hanno già avuto un alloggio dove andare (pare ne manchino ancora una cinquantina), e hanno lasciato di buon grado quelle case dove malvolentieri erano stati messi e che avevano da subito vandalizzato. Progettate alla maniera degli ordinari edifici 167 costruiti a Scampia, le nuove case pubbliche hanno inconI trato apprezzamento: insomma sono più vicine ai desideri che fin dall' inizio quegli inquilini dovevano avere. Non essendoci quindi un' urgenza sociale ma solo un' urgenza di decisioni, la politica e la cultura avrebbero tutto il tempo per approfondire l' utilità degli abbattimenti totali o parziali e/o la possibilità del loro riutilizzo. Si tratta di circa 780 appartamenti suddivisi in quattro edifici. Servirebbe allora un programma di riqualificazione, per lo meno dei lotti L e M, un programma per la creazione di un quartiere mai nato, nel quale le Vele potrebbero giocare un ruolo diverso da quello residenziale: abbattute parzialmente e/o usate come terziario e laboratori, o come studentato, o infine magari vendute ai privati. Insomma potremmo essere più coraggiosi e pensare a un futuro di Secondigliano che, nato nel 1964 con un piano-non piano, libero e senza forma, ispirato da Giulio De Luca, è rimasto senza validi collegamenti con la città (salvo la recente fermata della linea 1), pieno di case popolari e con grandi strade intorno a un chimerico centro direzionale (oggi poco utilizzabile parco urbano). Certo non possiamo aspettare che a decidere sia il tempo con lo sbriciolamento delle strutture abbandonate e il ritorno alla terra di quei giganti, perché il tempo che produce rovine è finito: solo l' architettura antica infatti produce splendidi ruderi, mentre quella attuale si distrugge solamente e non lascia tracce. Ma se demolire costa e ai materiali demoliti bisogna anche dare un uso intelligente, la riqualificazione costa ancora di più, e ancora di più che fare case nuove. Ciò che non si può fare invece è recuperare, perché quelle case sono irrecuperabili. L' originale progetto di Francesco Di Salvo, infatti, non è recuperabile: esso non fu mai costruito; al suo posto l' impresa e i suoi tecnici costruirono un deforme simulacro che aggravò alcuni difetti già presenti in parte nel progetto e nelle norme Gescal, introdusse la prefabbricazione totale, la trasformazione strutturale delle strade pensili, la variazione del numero e del taglio degli alloggi previsti, la esiziale riduzione dello spazio interno; quello spazio da carcere piranesiano da dove gli abitanti sono fuggiti. Esiste un approfondito studio sulla riconversione parziale delle Vele prodotto dalla Facoltà di Architettura (condotto dal professor Antonio Lavaggi), mai utilizzato dal Comune e dal quale si potrebbe invece ripartire per sfidare con l' architettura un esperimento finito male. Qualunque soluzione si voglia praticare per le Vele così come per la sterminata periferia, serve un impegno credibile della politica su ciò che si può fare per riqualificare non tanto e non solo gli edifici ma soprattutto i luoghi dove vive la gente. © RIPRODUZIONE RISERVATA
- SERGIO STENTI             10 maggio 2011    Repubblica   Napoli

giovedì 7 aprile 2011

Bagnoli e l'ex Manifattura Tabacchi, Napoli

Qualche riflessione su due vicende urbanistiche di rilievo come Bagnoli e l’ex Manifattura Tabacchi possono restituirci una migliore comprensione dell’attuale fase della città.   Entrambi interventi pubblici di riqualificazione, comunale il primo, statale il secondo, differiscono  nel fatto che mentre a Bagnoli  le condizioni del Piano non interessano i privati,  alla Manifattura Tabacchi, lo stato accetta, per ora,  le attuali condizioni di Piano per le sue operazioni immobiliari, poi si vedrà. Sempre più la riqualificazione sembra poggiare su come attrarre gli investitori privati ma tale interesse, almeno fino ad oggi, non è stato incentivato con la conseguenza che si è anche bloccato ogni intervento pubblico non autosufficiente. Infatti, sia gli interventi i privati  sia quelli pubblici non hanno prodotto  da oltre ventanni interventi  concreti di una certa consistenza, per esempio  un quartiere o  un complesso  urbano, ma al massimo qualche edificio o complesso per il commercio.  Giganteggiano in tale pochezza le linee metropolitane, straordinario intervento per la città, qualificato dalle stazioni dell’arte della linea 1 che purtroppo, però non riescono ad arricchirsi della stazione dell’aeroporto, impedendo la chiusura dell’anello,  decisivo per la mobilità urbana. Tra le molte cause responsabili di questa situazione di blocco si possono elencarne alcune: la rigidità del PRG, farraginose norme urbanistiche e procedurali, ritardati pagamenti a 30 mesi alle Imprese da parte del Comune, un’illegalità scoraggiante. E’ noto che Napoli ha urgente bisogno di riqualificare la periferia e di restaurare il centro storico.  La città ha sovrabbondanza di terziario e scarsezza di abitazioni, parchi  e buoni trasporti, mentre non manca di attrezzature ( almeno sulla carta). Mancando risorse pubbliche la riqualificazione e il restauro si possono fare solo con gli investitori privati che non si sono mostrati interessati alle proposte comunali. Giusto o sbagliato che sia tale atteggiamento le conseguenze sono state, mancanza di case civili e a buon mercato,  un aumento dell’abusivismo nei comuni confinanti, una emigrazione consistente (7000 persone all’anno) , una trasformazione strisciante del centro storico attraverso volgari frazionamenti che snaturano le tipologie edilizie storiche, un aumento dei prezzi degli appartamenti.
La politica non ha saputo porre un argine a questo stato di cose, anzi è sembrato che lavorasse per la decrescita della città piuttosto che per il suo sviluppo. Prevedere uno sviluppo basato sul terziario è stato un errore che poteva essere superato aggiornando semplicemente solo alcune norme del PRG, per esempio il rapporto tra terziario e residenze. Chi costruirebbe oggi a Ponticelli o a Soccavo edifici che devono contenere il 60% di terziario e il 40% di appartamenti  di cui parte per social housing  e cioè con prezzi agevolati ? A Bagnoli la sconfitta delle previsioni del PRG ha costretto il Comune a rivedere il mix tra terziario e residenze ampliando la quota di case e incrementandole della maggiore cubatura concessa dal Piano Casa Regionale. Con logica conseguenza tale variazione andrebbe estesa a tutta la periferia: più case e meno terziario. Si avrebbe cosi a parità delle cubature previste un incremento considerevole di almeno 10.000 abitazioni di cui 3000 per social housing. Ancora poche per la verità per un fabbisogno stimato sui 50/80.000 alloggi necessari,  ma che i  evidentemente non sono costruibili nel territorio comunale. Una tale quantità di sviluppo necessità  una politica di accordi intercomunali e/o metropolitani di cui non c’è traccia concreta. Non solo ma un territorio comunale piccolo non può nemmeno accogliere ulteriori urbanizzazioni, la sua densità abitativa raggiunge già livelli molto alti ( 8500 ab/kmq) per cui è auspicabile che ai pochi nuovi interventi già  previsti non si aggiunga nemmeno un metro cubo che occupi il prezioso suolo libero. Meglio indirizzare lo sviluppo nelle ristrutturazioni e nelle densificazioni.
In altri paesi come Inghilterra e Germania sono in atto politiche urbanistiche di contenimento del consumo di suolo  con limitazioni a nuove urbanizzazioni. In Inghilterra il consumo di suolo nazionale è limitato a 40 ha/giorno ( in Italia consumiamo 130ha/giorno, dati lega ambiente 2011)  mentre in Germania il 70% delle nuove costruzioni deve essere fatto in aree già urbanizzate. Anche da noi si dovrebbe puntare in primis a contenere le espansioni urbane, a riqualificare l’esistente già urbanizzato. Non solo ma anche il modo di costruire dovrebbe cambiare. Invece che  costruire quartieri a bassa densità edilizia e con basse altezze ( 12/15 mt.)  sarebbe preferibile  costruire quartieri in  altezza,, lasciando aree libere per necessità collettive e per buoni trasporti.  Piccole modifiche, non rivoluzionarie, potrebbero farci superare l’attuale blocco della città e avviarci verso uno sviluppo sostenibile.
( pubblicato su Repubblica napoli, il 6.04.2011)

sabato 15 gennaio 2011

Periferie modello Detroit

Si sta attivando un dibattito pubblico molto interessante sui temi dell' urbanistica della città che ruota su due domande fondamentali: quale idea di città deve guidare i cambiamenti necessari e quale periferia vogliamo e possiamo proporre. Sforzandosi di prefigurare scenari possibili, esso dovrà approfondire le ragioni di una mancanza di risultati nonostante un preciso e motivato piano regolatore. G li obiettivi del piano erano semplici, nessuna espansione edilizia, riqualificazione del tessuto esistente e del verde e soprattutto dell' immensa periferia formatasi nel dopoguerra e riconversione delle aree dismesse. Difficile dire che percentuale è stata raggiunta rispetto a questi obiettivi, ma comunque le condizioni di vivibilità sono peggiorate e lo sviluppo basato sulla riqualificazione non c' è stato. Abbiamo continuato a mandar via coppie giovani al ritmo di oltre 5000 persone l' anno, senza migliorare il verde e accumulando ulteriore fabbisogno di case. Del resto non riuscendo a realizzare o riqualificare grandi quartieri in città e nemmeno fuori di essa perché ogni Comune non cede sovranità e l' area metropolitana ipotizzata come scenario è di là da venire, come poteva verificarsi uno sviluppo della città senza espansione? Poteva, com' è accaduto, aggravarsi l' intasamento e l' abusivismo edilizio nei Comuni della cintura intorno Napoli, aggrovigliando quella corona di spine che Nitti denunciava un secolo fa come prodotto della miseria del Sud. Se si riflette sulle attuali possibilità di edificazione in periferia, si scopre che la parte maggioritaria è prevista come terziario o laboratori produttivi e tale previsione, che forse andava bene dieci anni fa, oggi non corrisponde più alle necessità cittadine. A Milano, per fare un esempio, il Comune si è impegnato a proporre una variante all' Expo 2015 per aumentare la quota di residenze previste e abbassando di conseguenza il terziario previsto. Si tratta in sostanza di proporre aggiustamenti e correttivi, senza stravolgimenti urbanistici, in modo tale da favorire lo sviluppo sostenibile. Un convegno e una mostra a Palazzo Reale ("Mies van der Rohe e il Lafayette park", a cura di Università Federico II, Facoltà di Architettura e Ordine degli architetti, inaugurazione oggi ore 1018) possono essere di stimolo a una riflessione sul come riqualificare la periferie. In particolare la mostra illustra un intervento che ci viene dagli Usa, un grande quartiere nella città dell' automobile, a Detroit, che vuole proporre un modello di eliminazione degli slums. Non è certo una forma d' insediamento immediatamente applicabile alle nostre città del Sud abituate alla strada come luogo di relazioni, ma, superata un po' di retorica sulla città meridionale, non potrebbe essere arricchita la nostra esperienza accogliendo ciò che vi è di veramente innovativo? Si tratta di un grande quartiere edificato intorno a un parco residenziale pedonale con poche attrezzature pubbliche e un adeguato centro commerciale. Vi viene espressa l' idea moderna dell' abitare nel verde che ha attraversato tutto il Novecento e che qui ha trovato una eccezionale soluzione. Case alte per coppie più o meno giovani, case basse per famiglie numerose, case a schiera per la tradizionale famiglia americana. Niente palazzine dunque, ma uno studio del paesaggio e un senso di comunità inaspettato che è testimoniato dal film sulla vita degli abitanti in proiezione alla mostra. Il successo del quartiere si basa sulla qualità dell' urbanistica di Hilberseimer e sulla qualità degli edifici di un architetto d' eccezione, Mies van der Rohe, che ha disegnato le case a basso costo del Lafayette park, dopo che per tutta la vita aveva disegnato case per ricchi borghesi e grattacieli per le Corporates. Purtroppo il parco residenziale moderno ha una cattiva reputazione a Napoli: le Vele di Franz Di Salvo a Scampia altro non erano che un tentativo di case alte nel verde, ma sono state realizzate male e peggio abitate. Con questo non voglio dire che non si possa cercare di farle sopravvivere, in qualche modo, ma certo erano e sono poco adatte a famiglie disagiate con bambini. Il quartiere americano invece appare più in sintonia con gli usi abitativi locali pur aderendo poco all' american way of life delle case unifamiliari isolate col giardino e il garage. Tornando a Napoli e rimarcando il giusto indirizzo del piano regolatore di non espandere la città e di creare luoghi residenziali in periferia attrattivi e soddisfacenti il nostro alto fabbisogno, perché non pensare, nell' attesa di costruire le case dei napoletani fuori provincia, a nuovi quartieri ecologici, ma che usano edilizia mista e grattacieli per giovani coppie e single?

(pubblicato 26 ottobre 2010 — NAPOLI- Repubblica)