giovedì 13 gennaio 2011

Accettiamo la sfida sugli anni di Achille Lauro


Mi pare una sfida e una provocazione intellettuale quella di rivalutare il periodo laurino che il Soprintendente Stefano Gizzi ha proposto giorni fa su questo giornale in un’intervista di Diego Lama. 
Una sfida perché per noi che ci siamo formati su “Urbanistica 65” di Iannello e De Lucia, su “Documento su Napoli” di Pane e sugli scritti di De Fusco, appare difficile associare il termine qualità alle realizzazioni laurine mentre associamo a esso concetti come speculazione edilizia o “mani sulla città”e non riteniamo di includere tra le “sue” realizzazioni, pur fatte in quel periodo, opere come per esempio La Loggetta o la Facoltà di Ingegneria. 
Provocazione intellettuale perché, ritenendo di non avere forti pregiudizi, una rivisitazione con occhi meno ideologici e forse più distaccati da quelli degli storici sopra citati, potrebbe essere utile a ricollocare, nel quadro cittadino attuale, un periodo e un insieme di opere che forse merita maggiore attenzione. Accettando la sfida e la provocazione, vorrei solo fare due osservazioni a un argomento e a un’iniziativa che, nel colpevole immobilismo di questi quindici anni, potrebbe agitare positivamente le acque  stagnanti di una paralisi urbanistica che sta danneggiando enormemente il futuro di questa città e soprattutto i suoi giovani abitanti.
Intanto, come osservato da Giovanna Muzzillo su questo giornale ( 8.1.010)  estenderei l’indagine sul  periodo laurino a due decenni, 50-60 e 60-70  che certo sono diversi,  ma riconducibili alla stessa insofferenza delle classi dirigenti di quel periodo per ogni regola urbanistica o semplicemente edilizia; nel 1959 Samonà osservava, Napoli rifiuta i piani,  ed in realtà il rifiuto proveniva da un bisogno padronale di avere mani libere nell’usare la rendita e la fame di case  come leva per superare qualsiasi intralcio democratico. Si praticava l’opposto del principio costitutivo di una tradizionale cultura del fare città: il principio d’ordine. L’istanza di modernizzazione emergente dal paese e il miglioramento economico post bellico venivano piegati a fini particolari anche col malgoverno. Il lassez-faire praticato a Napoli era in linea con quello nazionale, solo un po’ più cinico e baro.  Esso consentiva cementificazioni e aumenti di cubature perfino in zone panoramiche e intoccabili vietate anche dal riutilizzato Regolamento Edilizio del 1935.  ( via Manzoni, via Michelangelo, via Orazio, via Nevio, etc). In periferia, l’indifferenza all’abusivismo, avrebbe prodotto una città illegale come Pianura.
La seconda osservazione riguarda la distinzione tra architettura e città. Il Novecento, a differenza dell’Ottocento, com’è noto, ha praticato disinvoltamente tale separazione che è iniziata a Napoli proprio nel dopoguerra e che ha visto successivi fallimenti urbanistici nella periferia costruita degli anni settanta qualche volta anche in presenza di architetture di qualità.

Negli anni cinquanta la costruzione della città sulle colline avveniva in spregio dei caratteri paesistici, della misura edilizia della città della storia, delle regole moderne di distanza tra strade ed edifici e di dotazione di verde. La modernità laurina produceva brutture come l’intensivo rione Carità col suo “bel” grattacielo o il caotico villaggio Lauro (in nomine fatum); ma anche interventi positivi come la sistemazione di Piazza Municipio affidata a Canino, piazzale Tecchio e la ricostruzione della Mostra d’Oltremare.
Eccellenti architetti che seguivano linee culturali che spaziavano dal classicismo critico di Canino al razionalismo di Cocchia e De Martino all’organicismo di Cosenza e De Luca, producevano, malgrado il laurismo,  opere significative che hanno retto il tempo, come la stazione di piazza Garibaldi, il Politecnico , il Monaldi,  la Rai.  E soprattutto, nel campo delle case popolari la qualità dei nuovi quartieri ebbe riconoscimenti nazionali indiscussi.  Proprio quei quartieri, realizzati massimamente col piano Ina-casa, sono stati documentati da una mostra della Soprintendenza nel 2006 a cura di Ugo Carughi e nella quale Lilia Pagano ed io curammo la sezione cittadina.
In definitiva penso che più che fare graduatorie tra gli anni peggiori della Napoli moderna, sia utile ripensare i modi per una rinascita del senso di appartenenza a un bene collettivo qual è la nostra città con le sue parti storiche cosi come con quelle periferiche entrambe bisognose di amorevoli cure. 
( pubblicato su "Il Corriere del Mezzogiorno" del 12.1.2011)

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